LA CORTE DEI CONTI 
            Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio 
 
    Il giudice monocratico cons. Antonio Di Stazio ha pronunciato  la
seguente ordinanza: 
      nel giudizio iscritto al n. 76886 del registro  di  segreteria,
sul   ricorso   presentato   dal   dott.   Emidio   Frascione   (C.F.
FRSMDE33L15G942Z), nato a Potenza il 15  luglio  1933,  elettivamente
domiciliato in Roma, alla via Santa Maria in Via  n.  12,  presso  lo
studio del prof.  avv.  Vincenzo  Fortunato,  che  lo  rappresenta  e
difende   (indirizzo   P.E.C.   per   le   comunicazioni   di   rito:
vincenzofortunato@ordineavvocatiroma.org     -     utenza     telefax
06/6784911); 
    contro: 
      Governo  della  Repubblica  -  Presidenza  del  Consiglio   dei
ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri  p.t.,
con  sede  legale  in  Roma,  Palazzo  Chigi,  piazza  Colonna   370,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, con sede in Roma,
via dei Portoghesi 12; 
      Ministero  dell'economia  e  delle  finanze,  in  persona   del
Ministro p.t., con sede legale in  Roma,  via  XX  Settembre  n.  97,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, con sede in Roma,
via dei Portoghesi 12; 
      Istituto nazionale  di  previdenza  sociale  (INPS),  con  sede
legale in Roma, via Ciro il Grande 21, in persona  del  Presidente  e
legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso  dall'avv.  Andrea
Botta   (P.E.C.:    avv.andrea.botta@postacertinps.gov.it    -    fax
06/94527716), elettivamente domiciliato in Roma, via Cesare  Beccaria
29; 
    Letto il ricorso e gli altri di causa; 
    Uditi, nella Camera di consiglio del 4 dicembre  2019,  il  prof.
avv. Vincenzo Fortunato per il  ricorrente,  l'Avvocato  dello  Stato
Andrea Fedeli in rappresentanza della Presidenza  del  Consiglio  dei
ministri e del Ministero dell'economia e delle finanze. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    1. Con ricorso del 3 giugno 2019 parte ricorrente ha chiesto: 
      a) l'accertamento, previa concessione di misure cautelari,  del
diritto  al  riconoscimento  e   all'integrale   corresponsione   del
trattamento pensionistico, senza la decurtazione di cui  all'art.  1,
comma 261,  della  legge  30  dicembre  2018,  n.  145  e  successive
modifiche   e   integrazioni,   con   conseguente   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale delle trattenute operate a  tal  titolo
sul trattamento pensionistico in godimento del ricorrente, e condanna
dei soggetti resistenti alla restituzione in favore del ricorrente di
quanto trattenuto a far data dall'applicazione  della  riduzione  del
trattamento pensionistico di cui all'art. 1, comma 261,  della  legge
30 dicembre 2018, n. 145 e successive modifiche  e  integrazioni;  b)
l'accertamento, previa  sospensione  della  trattenuta  a  titolo  di
blocco dell'adeguamento perequativo, del diritto alla  corresponsione
del trattamento pensionistico  rivalutato  senza  il  blocco  imposto
dall'art. 1, comma 260, della  legge  30  dicembre  2018,  n.  145  e
successive modifiche  e  integrazioni,  e  conseguente  condanna  dei
soggetti resistenti alla restituzione in  favore  del  ricorrente  di
quanto  non  corrisposto  a   tal   titolo;   c)   l'annullamento   o
disapplicazione della circolare INPS n. 62 del 7 maggio 2019,  avente
per oggetto: «Riduzione  dei  trattamenti  pensionistici  di  importo
complessivamente superiore a 100.000 euro su base annua. Articolo  1,
commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n.  145  (legge  di
bilancio  2019).  Istruzioni  contabili.  Variazioni  al  piano   dei
conti.». 
    In ogni caso con vittoria di spese ed onorari di giudizio. 
    1.1. Con il ricorso in epigrafe il  dott.  Frascione,  dopo  aver
premesso: 
      di essere stato collocato a riposo per limiti di eta' (ex  art.
16, decreto-legge n. 503/1992) dal 4 settembre 2008, con la qualifica
di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato; 
      di avere versato contributi,  compresi  i  periodi  riscattati,
per cinquantuno  anni  e quattro   mesi,   come   da   prospetto   di
liquidazione INPDAP del 24 luglio 2008, versato in atti; 
      di godere della pensione ordinaria di vecchiaia, liquidata  con
il sistema retributivo, per un importo lordo annuo  (al  netto  della
tredicesima) di euro 186.087,12; 
    lamenta  che  il   suo   trattamento   pensionistico   e'   stato
pesantemente inciso  dalla  legge  30  dicembre  2018,  n.  145,  che
all'art. 1, commi dal  261  al  268,  ha  introdotto  una  misura  di
«riduzione» dei trattamenti pensionistici piu' elevati, per la durata
di cinque anni a decorrere dal 1°  gennaio  2019,  atteso  che  detto
trattamento risultera' decurtato di circa euro  21.700  annui,  e  di
complessivi  euro  109.000  nell'arco  del  previsto  quinquennio  di
applicazione. 
    1.2. Assume che la predetta misura costituisce solo l'ultima  (in
ordine di tempo) di una serie di  interventi  legislativi  che  hanno
imposto prelevi forzosi sulla categoria dei pensionati: 
      a) il «contributo  di  solidarieta'»  imposto  dalla  legge  n.
488/1999 (art. 37, comma 1) per il triennio 2000-2002; 
      b) l'analogo «contributo di solidarieta'» previsto dall'art. 3,
comma 102, della legge n. 350/2003 per il triennio 2004-2006; 
      c) il contributo di solidarieta' di cui all'art. 1, comma  486,
della legge n. 147/2013, per il triennio 2014-2016), parte ricorrente
lamenta inoltre che la legge n. 145 del 2018 ha  altresi'  introdotto
il parziale blocco della perequazione delle pensioni,  anch'esso  con
aliquote crescenti, misura che segue  quella  gia'  prevista  per  un
biennio  dall'art.  24,  commi  25,  lettera   e),   e   25-bis   del
decreto-legge n. 201 del 2011 e successive modifiche e integrazioni. 
    1.3. Assume  ancora  parte  ricorrente  che  le  misure  previste
dall'art. 1, commi 261-265, della citata legge 30 dicembre  2018,  n.
145, si pongono in  palese  violazione  dei  principi  sanciti  dagli
articoli 2, 3, 23, 36, 38, 53, 81, 97, 104 e 117 della Costituzione. 
    In particolare, il comma 261 sarebbe illegittimo nella  parte  in
cui prevede, per un  quinquennio,  aliquote  crescenti  di  riduzione
delle pensioni dirette a gestione INPS superiori a determinate soglie
(e segnatamente: il 15% per la parte eccedente l'importo  di  100.000
euro lordi su base annua e fino a 130.000 euro; il 25% per  la  parte
eccedente 130.000 euro e fino a 200.000 euro; il  30%  per  la  parte
eccedente 200.000 euro e fino a 350.000 euro; il  35%  per  la  parte
eccedente 350.000 euro e fino a 500.000 euro; in ultimo, il  40%  per
la parte eccedente l'importo di 500.000 euro). 
    1.4.  A  sua  volta,  il  comma  262  sarebbe  costituzionalmente
illegittimo laddove dispone che gli importi di cui al comma 261  sono
soggetti a rivalutazione automatica  secondo  il  meccanismo  di  cui
all'art. 34, comma 1, della legge n. 448/1998 e successive  modifiche
e integrazioni. 
    1.5. Sarebbe altresi' illegittimo il comma 263,  nella  parte  in
cui dispone che «la riduzione di cui  al  comma  261  si  applica  in
proporzione agli importi  dei  trattamenti  pensionistici,  ferma  la
clausola di salvaguardia di cui al comma 267. La riduzione di cui  al
comma 261 non si applica  alle  pensioni  interamente  liquidate  con
metodo contributivo.». 
    1.6. Sarebbe, inoltre, affetto da  incostituzionalita'  anche  il
comma 265 ove si  prevede  l'istituzione  di  appositi  fondi  presso
l'INPS e presso gli altri enti previdenziali interessati,  denominati
«Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di  importo  elevato»,
in cui confluiscono  i  risparmi  derivanti  dall'applicazione  delle
disposizioni  di  cui  ai  commi  da  261  a  263,  che  restano  ivi
accantonati. 
    1.7. Quanto al requisito della rilevanza della eccepita questione
di costituzionalita', adduce il ricorrente di  rientrare  nell'ambito
di applicazione dell'art. 1, comma  261,  della  legge  n.  145/2018,
essendo  magistrato  amministrativo  in   quiescenza,   titolare   di
trattamento pensionistico diretto a carico dello  Stato,  di  importo
superiore alla soglia minima di applicazione della riduzione, pari ad
euro 100.000 lordi annui, liquidato  con  sistema  retributivo  e  di
avere gia'  subito  le  contestate  decurtazioni,  come  da  cedolini
versati  in  atti.  Cio'  in  considerazione   del   petitum,   volto
all'accertamento  del  diritto  del  ricorrente  alla  corresponsione
integrale della pensione senza  l'applicazione  delle  sopra  esposte
decurtazioni, al conseguente accertamento  dell'illegittimita'  delle
somme trattenute dall'ente  previdenziale  a  detto  titolo,  e  alla
condanna degli enti intimati alla restituzione di tali somme. 
    1.8. Quanto alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,
assume il ricorrente che la disciplina  del  taglio  delle  pensioni,
come  introdotta  dalla  normativa  in  discorso,  contrasta  con   i
parametri costituzionali della ragionevolezza e proporzionalita',  ex
articoli 2, 3, 36  e  38  della  Carta  costituzionale,  non  essendo
rispettati,   nella   specie,   i   limiti   che   secondo   costante
giurisprudenza costituzionale debbono essere rispettati da previsioni
- come quella in esame - che  incidono  su  diritti  acquisiti  o  su
rapporti  istituzionali  consolidati,  limiti  che   -   secondo   la
prospettazione  di  parte  ricorrente  -  operano  in  maniera   piu'
stringente per le misure che incidono sulle pensioni, stante la  loro
natura di retribuzione differita. 
    In particolare: 
      riguardo  alla   misura   «una   tantum»,   la   giurisprudenza
costituzionale  ha  ritenuto  che  l'intervento  di   riduzione   del
trattamento pensionistico «non puo' essere ripetitivo e  tradursi  in
un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza»); 
      riguardo  al  «contributo   di   solidarieta'»,   il   relativo
intervento normativa e' stato ritenuto  legittimo  solo  «in  ragione
della sua temporaneita'» e del «suo porsi  come  misura  contingente,
straordinaria e temporalmente  circoscritta»  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 173 del 2016); 
      il prelievo e' ragionevole e non infrange  i  principi  di  cui
agli articoli 38 della  Costituzione  e  36  della  Costituzione  ove
incide sulle pensioni entro limiti di sostenibilita', in  quanto  «le
aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare
il principio di proporzionalita', che e'  esso  stesso  criterio,  in
se', di ragionevolezza della misura» (Corte costituzionale,  sentenza
n. 173 del 2016); 
      anche laddove l'intervento di riduzione sia mosso da specifiche
finalita' previdenziali, il legislatore deve rispettare i principi di
ragionevolezza e proporzionalita', sicche' il prelievo "deve  operare
all'interno   dell'ordinamento   previdenziale   come    misura    di
solidarieta' «forte», mirata a puntellare il sistema pensionistico, e
di sostegno previdenziale ai  piu'  deboli,  anche  in  un'ottica  di
mutualita' intergenerazionale, siccome imposta da una  situazione  di
grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori  endogeni  ed
esogeni che devono essere oggetto di attenta  ponderazione  da  parte
del  legislatore,  in  modo  da   conferire   all'intervento   quella
incontestabile ragionevolezza, a fronte  della  quale  soltanto  puo'
consentirsi di derogare (in  termini  accettabili)  al  principio  di
affidamento in ordine al mantenimento del  trattamento  pensionistico
gia' maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n.  302  del
2010, n. 446 del 2002, n. 176 del 2016). 
    1.9. Secondo la prospettazione di parte ricorrente, la disciplina
introdotta dalla legge n. 145 del 2018  non  supera,  sotto  i  sopra
menzionati profili, lo scrutinio «stretto» di costituzionalita',  per
i seguenti motivi: 
      i)  il  disposto  taglio  delle  pensioni  piu'  alte  non   e'
qualificato come contributo di solidarieta' ne' risponde a  finalita'
solidaristiche; 
      ii)  e'  assente  il  presupposto  della  «temporaneita'»   del
sacrificio imposto ai pensionati. Invero, l'intervento  normativa  in
esame, lungi dall'essere temporaneo e circoscritto, si  connota  come
«ripetitivo» rispetto ad analoghe  misure  di  prelievo  forzoso  dei
trattamenti pensionistici  gia'  previste  da  precedenti  interventi
legislativi (di cui quella disposta con la citata legge n.  147/2013,
ritenuta  ai  limiti  della  legittimita'  costituzionale,  e'   solo
l'ultima di una lunga serie), e precisamente: 
        a) il «contributo di solidarieta'» introdotto  dall'art.  37,
comma 1, della legge n. 488 del 1999, per il triennio 2000-2002,  sui
trattamenti pensionistici corrisposti da enti  gestori  di  forme  di
previdenza obbligatorie complessivamente superiori al massimale annuo
previsto dall'art. 2, comma 18, della legge n. 335 del 1995; 
        b) il «contributo di solidarieta'» di cui all'art.  3,  comma
102, della legge n. 350 del 2003,  per  il  triennio  2004-2006,  sui
trattamenti pensionistici corrisposti da enti  gestori  di  forme  di
previdenza obbligatorie,  di  importo  complessivamente  superiore  a
venticinque volte quello stabilito dall'art. 38, comma 1, della legge
n. 448 del 2001; 
        c) il «contributo di perequazione» di cui all'art. 18,  comma
22-bis, della legge n . 350 del 2003, per il periodo 1° agosto 2011 -
31 dicembre 2014, sui trattamenti pensionistici corrisposti  da  enti
gestori   di   forme   di   previdenza   obbligatorie   di    importo
complessivamente  superiore  a  90.000  euro  lordi   annui.   Misura
dichiarata  costituzionalmente  illegittima  per   violazione   degli
articoli 3 e 53 della Costituzione con sentenza n. 116 del 2013; 
        d) da ultimo, il «contributo di solidarieta'» di cui all'art.
1,  comma  486,  della   legge   n   .   147   del   2013,   ritenuto
costituzionalmente legittimo solo in quanto misura  eccezionale,  una
tantum, e connessa a una obiettiva finalita'  endo-previdenziale  (la
c.d. emergenza esodati). 
    Il ricorrente, collocato a riposo nel 2008,  precisa  che  si  e'
visto gia' applicare integralmente (come  da  cedolini  in  atti)  il
predetto contributo di solidarieta' per il triennio 2014-2016, misura
che  la  Corte  costituzionale  aveva  ritenuto  «al  limite»   della
costituzionalita' in  quanto  «misura  contingente,  straordinaria  e
temporalmente circoscritta». 
    1.10. Alla luce di quanto sopra osservato,  ilricorrente  ritiene
che la rinnovata previsione di un ulteriore intervento  di  riduzione
forzosa dei trattamenti pensionistici in essere  -  peraltro  per  un
periodo ben piu' lungo, pari ad un quinquennio - e' elemento  di  per
se sufficiente per escludere il superamento dello scrutinio «stretto»
di costituzionalita' richiesto in materia. Osserva al riguardo: 
      che  la  disciplina  in  esame,  al  di  la'  del  nomen  iuris
utilizzato, si pone in rapporto di sostanziale  continuita'  con  gli
interventi precedenti, sopra menzionati, poiche' impone alla pari  di
quelli una decurtazione dei trattamenti pensionistici  in  essere  al
superare di una determinata soglia; 
      che la temporaneita' dei singoli prelievi previsti  da  ciascun
intervento normativa e' solo  apparente,  dal  momento  che  essi  si
legano l'uno all'altro in un continuum  in  cui  soggetto  e  oggetto
della misura e' sempre lo stesso: il pensionato e la propria pensione
maturata ex lege; 
      che, cosi' operando, il legislatore finisce per trasformare  un
istituto eccezionale  e  temporaneo  in  uno  strumento  ordinario  e
definitivo, in manifesta violazione dei canoni  di  proporzionalita',
ragionevolezza e legittimo affidamento. 
    Quanto appena osservato varrebbe senza dubbio per il  ricorrente,
il  quale  ha  gia'  integralmente  subito,  per  l'intero   triennio
2014-2016, la riduzione della pensione per effetto del contributo  di
solidarieta' di cui alla legge n. 147/2013. 
    Ritiene ancora il ricorrente che la nuova misura esorbita, di per
se', i prescritti limiti  di  ragionevolezza  e  proporzionalita'  in
quanto prevede la riduzione dei trattamenti pensionistici per  cinque
anni, e cioe' non circoscritta - anche in ragione dell'entita'  della
riduzione disposta - entro un arco temporale ragionevole. 
    Da  tutto  cio'  consegue  altresi',  secondo  parte  ricorrente,
l'ingiustificata compressione  del  suo  legittimo  affidamento  alla
percezione del trattamento previdenziale come gia' maturato ex  lege,
affidamento consolidato alla luce delle ultime pronunce  della  Corte
costituzionale in materia (in primis, sentenza n. 173 del 2016),  che
avevano statuito la necessita' di non ripetizione di questo  tipo  di
interventi normativi, e comunque  la  perimetrabilita'  degli  stessi
entro un arco temporale ragionevole. 
    A suo dire, l'irragionevolezza della previsione, sotto il profilo
temporale, si appalesa evidente anche in considerazione del fatto che
la platea di destinatari colpiti dalla norma e' costituita da persone
di eta' avanzata (come  il  ricorrente  che  ha  86  anni  di  eta'),
rispetto alle quali la protrazione della misura per cinque anni ha la
consistente prospettiva di essere perpetua o comunque  di  non  poter
essere adeguatamente ristorata in misura effettiva, in considerazione
del fatto che la ristorazione integrale potrebbe avvenire in tempi di
vita ancora piu' avanzati. 
    Osserva  ancora  il  ricorrente  che,  essendo   il   trattamento
pensionistico per sua natura a tempo determinato, il prelievo forzoso
della pensione per un arco temporale cosi' lungo (fino ad  otto  anni
se ai cinque dell'ultima misura si sommano i tre di cui al precedente
intervento) costituisce una misura di modifica radicale e  definitiva
del rapporto. 
    Adduce parte ricorrente che non supera lo  scrutinio  stretto  di
costituzionalita'  neppure  la  previsione   delle   percentuali   di
trattenuta del trattamento pensionistico, tutt'altro che  ragionevoli
e proporzionate anche  se  rapportate  a  trattamenti  piu'  elevati,
trattandosi di aliquote - come sopra riportate - di molto superiori a
quelle introdotte in passato dal legislatore con altri interventi  di
decurtazione delle pensioni. 
    Infatti, le ultime tre aliquote superano di circa il doppio e  il
triplo  l'aliquota  unica  prevista  dal  regime  previgente  per  il
medesimo range. 
    Nel caso del ricorrente, la decurtazione - oltre a protrarsi  per
ben cinque anni (che si aggiungono  ai  tre  gia'  «scontati»)  -  e'
triplicata  rispetto  alla  precedente  per  il  primo  scaglione,  e
duplicata rispetto al secondo. Pertanto, il trattamento pensionistico
del ricorrente risultera' decurtato di circa euro 21.700 annui, e  di
complessivi euro 109.000 sui cinque anni in cui  la  misura  trovera'
applicazione. 
    Adduce parte ricorrente che, in termini di  proporzionalita'  del
prelievo, la decurtazione  della  pensione  si  traduce  in  un  peso
economico ulteriore e aggiuntivo  rispetto  a  quello  imposto  dalla
fiscalita' generale. E infatti, applicando la  misura  in  esame,  la
riduzione media annua del reddito pensionistico oscillera' dall'1,36%
per la fascia da 110mila euro e salira' al  24%  per  la  soglia  dei
500mila euro lordi. 
    Pertanto, per i contribuenti sottoposti  all'aliquota  Irpef  del
43%, nei prossimi cinque anni, solo per questi redditi,  l'Irpef  puo
aumentare dal 44,3% fino al 67%. 
    Secondo parte  ricorrente,  l'irragionevolezza  della  misura  e'
aggravata dal fatto che l'intervento di taglio delle pensioni in atto
fa  perdere  l'imprescindibile  nesso  di  sinallagmaticita'   e   di
ragionevolezza intrinseca tra la misura e il suo fine, atteso che: 
      non risulta finalizzato all'effettuazione di alcuna prestazione
previdenziale-assistenziale puntualmente individuata; 
      non sembra  neppure  volto  a  fronteggiare  l'eventuale  crisi
interna al sistema previdenziale. 
    Infatti, nel caso deciso con la richiamata pronuncia n.  173  del
2016, la Corte costituzionale aveva ritenuto giustificato, di  fronte
al fenomeno degli «esodati», richiedere un contributo sui trattamenti
pensionistici piu' alti, a  condizione,  tuttavia,  che  le  maggiori
somme  incassate  fossero  rimaste   all'interno   della   previdenza
pubblicate non utilizzate per altri fini, com'era avvenuto in passato
(il riferimento e' al «contributo di perequazione»  di  cui  all'art.
24, comma 31-bis, del decreto-legge n.  2011/2011,  convertito  dalla
legge n.  214/2011,  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  per
violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione). 
    Il nuovo «taglio», invece, fa confluire le  risorse  ottenute  in
uno specifico fondo, destinato a contribuire in  modo  indistinto  al
finanziamento dello Stato, atteso che il comma 265 dell'art. 1, legge
n. 145/2018 prevede l'istituzione, presso ciascun ente  previdenziale
interessato,   di   apposito   «Fondo   risparmio   sui   trattamenti
pensionistici di importo elevato», nel quale confluiscono e  «restano
accantonate» le somme derivanti dall'applicazione delle  decurtazioni
in esame. 
    Secondo parte ricorrente, i risparmi derivanti  dall'applicazione
dell'intervento contestato risultano destinati al bilancio statale  a
copertura delle spese generali e non gia'  per  realizzare  finalita'
endoprevidenziali,  come  evidenziato  nell'analisi   contenuta   nel
dossier «Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi - legge n.  145
del 2018 e decreto-legge  n.  119/2018  (legge  n.  138  del  2018)»,
redatto dal servizio bilancio del  Senato  e  dal  servizio  bilancio
dello Stato (gennaio 2019). 
    Anche     tale     effetto      evidenzierebbe      ulteriormente
l'incostituzionalita' della misura. 
    Mancherebbe,  altresi',  secondo  la  prospettazione   di   parte
ricorrente, qualsiasi logica di correlazione tra an e  quantum  della
decurtazione (compreso il suo orizzonte temporale quinquennale) e  le
dinamiche   finanziarie/prestazionali   complessive    del    sistema
previdenziale. 
    Assume ancora parte ricorrente che le disposizioni  in  esame  si
appalesino costituzionalmente illegittime per violazione dei principi
di uguaglianza e ragionevolezza, sotto plurimi profili. 
    Anzitutto,  la  legge  colpisce,   a   parita'   di   trattamento
pensionistico, solo alcuni soggetti appartenenti alla  categoria  dei
pensionati, e segnatamente i percettori di trattamenti  pensionistici
diretti a carico del  Fondo  pensioni  lavoratori  dipendenti,  delle
gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle  forme  sostitutive,
esclusive ed esonerative dell'assicurazione generale  obbligatoria  e
della gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995, e non
anche i pensionati di altre gestioni previdenziali diverse dall'INPS. 
    In secondo luogo, emergerebbe un ingiustificato squilibrio tra le
pensioni di anzianita' e quelle di vecchiaia,  con  privilegio  delle
prime a svantaggio delle  seconde,  in  quanto,  pur  versando  nella
stessa posizione professionale, chi ha  scelto  di  andare  prima  in
quiescenza  avra'  versato  minori   contributi   (godendo   di   una
retribuzione minore non essendo al massimo della carriera) e  per  un
periodo lavorativo inferiore e si trovera', pertanto, a godere di  un
trattamento previdenziale minore. Trattamento che invece risulta  non
toccato (se non raggiunge i 100mila euro l'anno) o  comunque  toccato
in misura ridotta, rispetto a quello di  chi  ha  lavorato  gli  anni
necessari per raggiungere la soglia della pensione di  vecchiaia,  il
cui importo sara' maggiore,  e  che  oggi  risulta  penalizzato,  con
evidente negazione del principio di uguaglianza. 
    Sotto un  ulteriore  profilo,  la  violazione  del  principio  di
ragionevolezza e  uguaglianza  emergerebbe  in  considerazione  della
natura  di  retribuzione  differita  del  trattamento  pensionistico,
sicche' esso, al pari del reddito derivante da altra  fonte,  assolve
alla medesima funzione di garanzia di un determinato livello di spesa
o di risparmio da parte del percettore. 
    A  tale  riguardo  osserva  parte   ricorrente   che   la   Corte
costituzionale  (sentenza  n.  30  del  2004)  ha  affermato  che  la
pensione, al pari della retribuzione  in  costanza  del  rapporto  di
lavoro, deve essere  proporzionata  alla  qualita'  e  quantita'  del
lavoro prestato e comunque idonea ad  assicurare  all'avente  diritto
un'esistenza  libera  e  dignitosa  ai  sensi  dell'art.   36   della
Costituzione. 
    Pertanto,  le  disposizioni  impugnate  -  ad  avviso  di   parte
ricorrente - sono illegittime e irragionevoli  in  quanto  colpiscono
solo una limitata platea dei percettori di reddito, e  cioe'  solo  i
pensionati (per di piu' con le  discriminazioni  anzi  descritte),  i
quali, diversamente dai soggetti in attivita' di  lavoro,  non  hanno
modo di compensare la riduzione attraverso  l'interlocuzione  con  il
datore  di  lavoro,  ne'  riescono  a  compensare  la  riduzione  con
ulteriori e diversi impieghi (specie nel periodo attuale, e a  fronte
di  previsioni  preclusive  quale  quella  prevista  per  le   PP.AA.
dall'art. 5, comma 9, del decreto-legge n.  95  del  2012,  conv.  in
legge n. 135 del 2012). 
    Viene altresi' sottolineato che la  «debolezza»  della  categoria
dei pensionati assume ancor  piu'  rilevanza  in  considerazione  del
fatto che si tratta di persone di eta' avanzata, che  piu'  di  altri
hanno bisogno di  mezzi  a  disposizione  per  sopperire  le  proprie
esigenze di vita quotidiana o  far  fronte  a  spese  sanitarie  piu'
ingenti; senza considerare che spesso il  trattamento  di  quiescenza
dei pensionati sopperisce, in un contesto di crisi occupazionale come
quello attuale, a difficolta' economiche dei prossimi congiunti delle
successive generazioni (figli, nipoti). 
    In ultimo, il fatto che la riduzione in esame non si  applica  ai
trattamenti pensionistici riconosciuti  ai  superstiti  (pensioni  di
reversibilita') metterebbe in evidenza l'intenzione  del  legislatore
di «punire» direttamente i pensionati, sull'erroneo  presupposto  che
la pensione non sia la proporzionata conseguenza di anni di intenso e
duro lavoro, ma piuttosto un ingiusto privilegio da rimuovere. 
    Ulteriore indice  dell'irragionevolezza  e  della  disparita'  di
trattamento insita nella misura all'esame viene individuata da  parte
ricorrente nella previsione di cui al  comma  263  dell'art.  1,  ove
dispone che «La riduzione di cui al comma 261 non si applica comunque
alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo». 
    Si assume che detta previsione sembra muovere dal presupposto che
le pensioni liquidate con il sistema retributivo (o misto) beneficino
di restituzioni non proporzionate ai  contributi  versati.  Trattasi,
tuttavia, di un presupposto infondato, che rende la norma viziata  da
irragionevolezza intrinseca, sotto vari profili. 
    Viene osservato che ogni  lavoratore  -  indipendentemente  dalla
modalita' di liquidazione della pensione  -  e'  comunque  sottoposto
alla contribuzione  previdenziale,  e  detti  contributi  partecipano
della funzione solidaristica che connota  il  versamento,  in  quanto
esso contribuisce al buon andamento della gestione previdenziale. 
    In  primo  luogo,  si  adduce  che  la  previsione  in  esame  e'
intrinsecamente irragionevole nel  colpire  unicamente  i  contributi
versati  da  coloro  la  cui  pensione  sia  liquidata  con   sistema
retributivo o misto. 
    In secondo luogo, il  sistema  retributivo  (al  pari  di  quello
misto)  non  necessariamente  e'   meno   solidaristico   di   quello
contributivo, potendosi giungere a conclusioni diametralmente opposte
a quelle  fatte  proprie  da  legislatore.  Se  infatti  nel  sistema
retributivo l'anzianita' contributiva  valida  ai  fini  del  calcolo
della retribuzione pensionabile si arresta al  quarantesimo  anno  di
contribuzione, nel sistema  contributivo,  invece,  la  contribuzione
utile ai fini del medesimo calcolo  si  protrae  per  tutta  la  vita
lavorativa, con conseguente incremento del  montante  individuale  ex
art. 1, comma 6, della legge n. 335/1995  e  successive  modifiche  e
integrazioni. 
    Pertanto, se in entrambi i casi il lavoratore  versa  contributi,
nel  sistema  retributivo,  diversamente  dal  contributivo,   quelli
versati oltre il  quarantesimo  armo  di  servizio  non  acquisiscono
alcuna rilevanza ai fini del computo della retribuzione pensionabile,
pur risolvendosi in un vantaggio per gli altri assicurati in  ragione
della natura solidaristica della contribuzione. 
    Detto profilo, a  giudizio  dell'odierno  ricorrente,  acquisisce
specifica rilevanza con riferimento alla sua posizione, essendo stato
collocato a riposo nel 2008, con il sistema  retributivo,  dopo  aver
versato contributi per ben cinquantuno anni e quattro  mesi.  In  tal
caso,  egli  non  hapotuto  avvalersi,  ai   fini   del   trattamento
pensionistico, dei contributi versati oltre il 40° anno, i quali sono
comunque andati  a  vantaggio  degli  altri  iscritti  alla  gestione
previdenziale e al sistema nel suo complesso. 
    L'irragionevolezza della norma sarebbe, secondo parte ricorrente,
tanto piu' evidente nei riguardi delle pensioni liquidate con sistema
misto (o «pro quota»), alle quali pure si applica la decurtazione del
trattamento    pensionistico    in    discussione,    con    evidente
contraddittorieta'  della  ratio  perseguita  dal  legislatore,   dal
momento che risultano sottoposti alla riduzione anche  i  trattamenti
pensionistici (parzialmente) alimentati dalle  contribuzioni  versate
nel corso dell'attivita' lavorativa. Tanto piu' se si  considera  che
il superamento della soglia dei 100.000 euro  lordi  annui  (o  degli
scaglioni  superiori  ai  fini  dell'applicazione  delle  percentuali
successive) ben  potrebbe  essere  determinato  proprio  dalla  quota
contributiva della pensione. 
    Cio' emergerebbe chiaramente dall'esempio citato dall'INPS  nella
Circolare n. 62 del  2019  -  di  cui,  ove  occorra,  viene  chiesto
l'annullamento o la disapplicazione - laddove la  quota  di  pensione
maturata   in   gestione   separata    concorre    all'individuazione
dell'importo lordo annuo sui cui applicare le aliquote di riduzione. 
    Assume il ricorrente che se la ratio della previsione  e'  quella
di un riequilibrio a carico delle pensioni con regime  retributivo  o
misto, sul  presupposto  che  esse  beneficino  di  restituzioni  non
proporzionate  ai  contributi  versati,  essa  muove  da  un  assunto
indimostrato, ed e'  comunque  perseguita  in  maniera  arbitraria  e
irragionevolmente discriminatoria. 
    Infatti, si osserva, sia per i trattamenti liquidati con  sistema
misto che con sistema integralmente  retributivo  (quale  quello  del
ricorrente),  la  norma  avrebbe  dovuto  prevedere,  per   garantire
l'uguaglianza di trattamento nel perseguimento della finalita' di cui
si  e'  detto,  un  meccanismo  di  determinazione   dei   contributi
effettivamente versati dal lavoratore, che, se sussistenti in  misura
pari o superiore al trattamento liquidato con il metodo  retributivo,
avrebbero dovuto essere parimenti  esentati  dall'applicazione  della
decurtazione contestata. Tale meccanismo e'  del  tutto  assente  nel
caso di specie. 
    Sarebbe quindi assente la previsione di una verifica del rapporto
tra  contribuzione  effettiva  e  assegno   previdenziale,   su   cui
parametrare l'applicazione della decurtazione de qua. 
    Assume  il  ricorrente  che,  avendo   versato   contributi   per
cinquantuno anni e quattro mesi, si vedra' (nuovamente!) decurtato il
proprio trattamento pensionistico (per complessivi euro 109.000 circa
su cinque anni) senza  alcuna  valutazione  della  propria  effettiva
contribuzione. 
    Ne' alcuna indicazione in tale senso sarebbe stata prevista dalla
circolare  INPS  n.  62  del  7  maggio  2019,  avente  per  oggetto:
«Riduzione dei trattamenti pensionistici di importo  complessivamente
superiore a 100.000 euro su base annua. Articolo 1, commi  da  261  a
268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di  bilancio  2019).
Istruzioni contabili. Variazioni al piano  dei  conti»,  della  quale
viene chiesto, ove necessario, l'annullamento o la disapplicazione. 
    La disciplina contestata, ad avviso di parte ricorrente, viene ad
elidere completamente il rapporto «contributi versati - importo della
prestazione pensionistica», determinando un'alterazione  profonda  ed
ingiustificata della logica che regola l'intero sistema. 
    Sotto altro profilo, viene ancora sottolineato  che,  essendo  il
sistema previdenziale improntato al finanziamento  «a  ripartizione»,
per cui la spesa pensionistica per  ciascun  anno  e'  coperta  dalle
entrate contributive versate nello  stesso  anno  dai  lavoratori  in
attivita', il  trattamento  pensionistico  erogato  al  personale  in
quiescenza, indipendentemente dal sistema di calcolo  utilizzato  per
la relativa liquidazione, e'  finanziato  dalle  contribuzioni  delle
generazioni in attivita'. 
    Emergerebbe  quindi  l'irragionevolezza  della  previsione  anche
sotto il profilo della  disparita'  di  trattamento,  sub  specie  di
trattamento dissimile di circostanze analoghe:  essendo  medesima  la
fonte  di   finanziamento   (la   contribuzione   delle   generazioni
inattivita') della pensione, non ha alcun senso distinguere  in  base
al  metodo  di  calcolo  della  relativa  liquidazione,  al  fine  di
determinare o meno l'applicazione delle decurtazioni in discussione. 
    1.11.  Viene  altresi'   eccepita   l'incostituzionalita'   della
disciplina introdotta dalla legge  n.  145/2018  per  violazione  del
legittimo affidamento nella stabilita' del trattamento pensionistico,
come maturato ex lege. 
    Tale  normativa,  secondo  parte  ricorrente,  interviene  su  un
rapporto di durata cristallizzato, modificandone in peius  una  delle
condizioni  essenziali,   cioe'   il   quantum,   con   una   portata
evidentemente retroattiva. 
    Sotto tale profilo  parte  ricorrente  osserva  che,  sebbene  la
Costituzione  vieti  la  retroattivita'  solo  delle   norme   penali
incriminatrici, secondo  costante  giurisprudenza  costituzionale  il
legislatore ordinario puo' emanare  norme  innovative  con  efficacia
retroattiva «purche' la retroattivita' trovi  adeguata  giusficazione
sul piano della ragionevolezza e non contrasti con  altri  valori  ed
interessi costituzionalmente protetti»,  atteso  che  il  divieto  di
retroattivita' costituisce, sempre secondo la Corte, «un fondamentale
valore di civilta' giuridica e principio  generale  dell'ordinamento»
(ex multis, Corte costituzionale, sentenze n. 274 del  2006,  n.  374
del 2002). 
    Per superare lo scrutinio di legittimita', la  legge  retroattiva
deve   trovare   «adeguata   giustificazione    sul    piano    della
ragionevolezza», e non deve porsi "in contrasto con altri  valori  ed
interessi   costituzionalmente    protetti,    quali    la    "tutela
dell'affidamento legittimamente posto sulla certezza dell'ordinamento
giuridico" e "il rispetto del principio generale  di  ragionevolezza,
che si riflette nel divieto di introdurre  ingiustificate  disparita'
di trattamento" (Corte costituzionale, sentenze n. 376 del  1995,  n.
329 del 1999, n. 416 del 1999, n. 525 del 2000, n. 419 del 2000). 
    Osserva  al  riguardo  parte  ricorrente  che  l'intervento   del
legislatore  qui  in  esame  incide  negativamente  sulla   legittima
aspettativa  dei   pensionati   alla   stabilita'   del   trattamento
pensionistico, che si e' cristallizzato con la  determinazione  della
pensione all'atto del collocamento a riposo. 
    Peraltro, la Corte costituzionale ha affermato  che  «il  diritto
alla  pensione  costituisce  una  situazione  soggettiva  di   natura
patrimoniale, imprescrittibile, assistita  da  speciali  garanzie  di
certezza  e  stabilita'  e  di  una  particolare  tutela   da   parte
dell'ordinamento (sentenza n. 116 del 2013), anche in  ragione  della
condizione  di  oggettiva  debolezza  in  cui  il  titolare  viene  a
trovarsi, sia nell'ambito del rapporto obbligatorio che  si  instaura
con l'amministrazione sia nella particolare fase della  vita  in  cui
l'uscita dall'attivita' lavorativa e l'eta' comportano  un  difficile
adattamento al nuovo stato»; sicche'  «la  deterninazione  definitiva
del trattamento di quiescenza costituisce il  momento  dal  quale  la
tutela dell'affidamento del pensionato nella stabilita' del vitalizio
percepito assume prevalente rilevanza nell'ambito dei valori tutelati
dall'ordinamento in subiecta materia» (sentenza n. 208 del 2014). 
    Sotto un ulteriore, rilevante  profilo,  la  normativa  in  esame
viola, a giudizio del ricorrente, anche gli articoli  3  e  53  della
Costituzione, atteso  che,  sebbene  il  legislatore  non  qualifichi
espressamente la misura come fiscale, essa costituisce un prelievo di
natura tributaria  ai  sensi  dell'art.  53  della  Costituzione.  Si
adduce, infatti, che quantunque la norma  non  preveda  espressamente
che le somme derivanti dalla riduzione dei trattamenti  pensionistici
elevati siano  acquisite  allo  Stato  e  destinate  alla  fiscalita'
generale, il nuovo «taglio» fa confluire le risorse ottenute  in  uno
specifico fondo,  destinato  a  contribuire  in  modo  indistinto  al
finanziamento  dello  Stato,  come  evidenziato  nel  citato  dossier
dell'Ufficio bilancio del Senato, intitolato  «Effetti  sui  saldi  e
conto risorse e impieghi - legge n. 145 del 2018 e  decreto-legge  n.
119/2018 (legge n. 138 del 2018)». 
    In sostanza, la possibilita' di elevare l'aliquota marginale fino
all'85 per  cento  della  retribuzione  rende  la  misura  del  tutto
equivalente ad una norma che introduce  una  nuova  imposta,  poiche'
opera in modo del tutto analogo e  fungibile  rispetto  all'ordinario
sistema  di  finanziamento  statale  delle   gestioni   previdenziali
(prelievo tributario e trasferimento agli enti previdenziali). 
    Tutto  cio'  in   palese   contrasto   con   ogni   criterio   di
ragionevolezza. 
    Osserva  al  riguardo  parte  ricorrente  che  la  giurisprudenza
costituzionale, al fine di valutare se una decurtazione  patrimoniale
definitiva  integri  un  vero  e  proprio  tributo,   interpreta   la
disciplina sostanziale che la prevede, verificando  se  sussistono  i
requisiti che caratterizzano la nozione unitaria di  tributo,  e  che
individua: 
      a) nella  doverosita'  della  prestazione,  in  assenza  di  un
rapporto sinallagmatico tra le parti; 
      b) nel collegamento di tale prestazione con la pubblica  spesa,
in relazione a un presupposto economicamente rilevante (ex  plurimis,
Corte costituzionale sentenze n. 223 del 2012, n. 141  del  2009,  n.
335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). 
    E' affermazione ricorrente nella giurisprudenza del giudice delle
leggi quella secondo la quale un tributo  consiste  in  un  «prelievo
coattivo che e' finalizzato al concorso alle pubbliche  spese  ed  e'
posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice
di capacita' contributiva» (Corte costituzionale, sentenza n. 102 del
2008);  indice  che  deve  esprimere  l'idoneita'  di  tale  soggetto
all'obbligazione tributaria (Corte costituzionale, sentenze n. 91 del
1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n.  16  del  1965,  n.  45  del
1964). 
    Assume parte ricorrente  che  la  contestata  normativa  presenta
tutti i suddetti requisiti, poiche' prevede: 
      a) una prestazione patrimoniale autoritativa «isolata» (perche'
scollegata da rapporto sinallagmatico); 
      b)  una  prestazione  che  grava  esclusivamente   su   redditi
derivanti  da  trattamento  previdenziale  obbligatorio,  maturati  a
seguito di contribuzione obbligatoria  in  costanza  di  rapporto  di
lavoro; 
      c) connotata - nell'arco temporale della relativa  applicazione
- da definitivita', cioe' della irretrattabile ablazione a  vantaggio
del patrimonio delle gestioni previdenziali obbligatorie. 
    Anche volendo ammettere che le somme non vengano acquisite  dallo
Stato, esse andrebbero comunque a beneficio di soggetti giuridici del
settore pubblico, quali debbono indubbiamente considerarsi  gli  enti
previdenziali privatizzati. 
    La stessa Corte costituzionale ha chiarito in piu' occasioni  che
«gli elementi basilari  per  la  qualificazione  di  una  legge  come
tributaria  sono  costituiti  dalla   ablazione   delle   somme   con
attribuzione delle stesse ad un ente pubblico e la loro  destinazione
allo scopo di apprestare mezzi per il fabbisogno fmanziario dell'ente
medesimo», come nel caso qui in esame (Corte costituzionale, sentenza
n. 11 del 1995, n. 37 del 1997). 
    Ancora recentemente, la  Corte  ha  esplicitato  che  presupposti
indefettibili della fattispecie tributaria consistono in cio', che la
disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare
una  definitiva  decurtazione  patrimoniale  a  carico  del  soggetto
passivo; la decurtazione  non  deve  integrare  una  modifica  di  un
rapporto sinallagmatico;  le  risorse,  connesse  ad  un  presupposto
economicamente rilevante e  derivanti  dalla  suddetta  decurtazione,
debbono  essere  destinate  a  sovvenire   pubbliche   spese   (Corte
costituzionale, ordinanza n. 52 del 2018, sentenze n. 269  e  n.  236
del 2017). 
    In considerazione della natura sostanzialmente  tributaria  della
decurtazione introdotta dalle  norme  contestate,  si  appalesa  -  a
giudizio del ricorrente - il contrasto della stessa con gli  articoli
3 e 53 della Costituzione,  sotto  il  profilo  della  disparita'  di
trattamento. 
    Invero, la prestazione patrimoniale imposta  dalla  normativa  in
esame  incide  esclusivamente  su  una   determinata   categoria   di
cittadini, ovvero i titolari di trattamenti pensionistici erogati  da
enti gestori di forme di previdenza obbligatorie (a  gestione  INPS),
mentre la rimanente generalita' dei consociati  di  eguale  capacita'
contributiva non risulta soggetta  ad  analogo  prelievo  tributario,
come pure non risultano toccati i  pensionati  delle  altre  gestioni
previdenziali. 
    Da cio'  una  chiara  violazione  dell'insegnamento  del  Giudice
costituzionale secondo  cui  «i  redditi  derivanti  dai  trattamenti
pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura  diversa
e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai
fini dell'osservano dell'art. 53 della  Costituzione,  il  quale  non
consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi  da
lavoro» (Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). 
    Osserva  parte  ricorrente   che   sebbene,   in   generale,   la
Costituzione non imponga una tassazione fiscale uniforme, con criteri
identici per tutte  le  tipologie  di  imposizione  tributaria,  essa
tuttavia richiede inderogabilmente «un indefettibile raccordo con  la
capacita' contributiva, in un quadro di sistema informato  a  criteri
di progressivita'», sicche'  lo  scrutinio  di  costituzionalita'  si
estrinseca in un  giudizio  sull'uso  ragionevole,  o  meno,  che  il
legislatore stesso abbia  fatto  dei  suoi  poteri  discrezionali  in
materia tributaria, al fine di verificare la coerenza  interna  della
struttura dell'imposta con il suo presupposto economico, come pure la
non arbitrarieta' dell'entita' dell'imposizione (sentenza n. 111  del
1997)» (Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). 
    Limiti di ragionevolezza che non  risulterebbero  rispettati  nel
caso di specie, atteso che il legislatore ha ritenuto di aggredire, a
parita' di condizioni, solo una limitata platea di cittadini, cioe' i
percettori di reddito da pensione superiore a una determinata  soglia
e, per di piu', i soli pensionati delle gestioni INPS,  con  pensione
diversa da quella liquidata con il metodo contributivo. 
    Tale illegittimita' sarebbe tanto piu' evidente  in  ragione  del
fatto  che  il  trattamento  pensionistico  ordinario  ha  natura  di
retribuzione differita (Corte  costituzionale,  sentenza  n.  30  del
2004), e pertanto «il maggior prelievo tributario rispetto  ad  altre
categorie risulta con piu' evidenza discriminatorio, venendo  esso  a
gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati  a
prestazioni lavorative gia' rese da cittadini che hanno  esaurito  la
loro vita lavorativa, rispetto ai quali non  risulta  piu'  possibile
neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto  di  lavoro»
(Corte costituzionale, sentenza n. 116 del 2013). 
    Si tratterebbe di un meccanismo che, come  evidenziato  in  altre
occasioni dalla Consulta, appare «foriero di un risultato di bilancio
che avrebbe potuto essere ben diverso e piu' favorevole per lo Stato,
laddove il legislatore avesse rispettato i  principi  di  eguaglianza
dei  cittadini  e  di   solidarieta'   economica,   anche   modulando
diversamente un universale intervento  impositivo».  Se  da  un  lato
l'eccezionalita'  della  situazione  economica  che  lo  Stato   deve
affrontare e' suscettibile  di  consentire  il  ricorso  a  strumenti
eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento
degli interessi finanziari e di garantire i servigi e  la  protezione
di cui tutti cittadini necessitano, dall'altro cio' non  puo'  e  non
deve determinare ancora una volta un'obliteragione  dei  fondamentali
canoni   di   uguaglianza,   sui   quali   si   fonda   l'ordinamento
costituzionale»  (cosi'  ancora  la  citata   Corte   costituzionale,
sentenza n. 116 del 2013). 
    Alla stregua delle  suesposte  articolate  considerazioni,  parte
ricorrente  insiste  per  la  rimessione  degli   atti   alla   Corte
costituzionale  anche  con  riferimento  ai  parametri  di  cui  agli
articoli 3 e 53 della Costituzione. 
    1.11. Adduce altresi' parte ricorrente che la disciplina  di  cui
ai commi 261 e seguenti dell'art. 1, legge n. 145/2018 si appalesa in
contrasto con i principi in  materia  di  proprieta',  cristallizzati
nell'art. 1 del 1° protocollo addizionale  alla  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali  (tra  cui  il  fondamentale  principio  di  legalita'),
nonche' con i principi di non discriminazione riconosciuti  dall'art.
14  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    1.12. Parte ricorrente  denuncia  altresi'  la  violazione  degli
articoli 3 e 81 della Costituzione. 
    Adduce al riguardo che l'art. 1, commi 261-268,  della  legge  n.
145 del 2018, stabilendo in  cinque  anni  la  durata  della  misura,
appare del tutto sganciata dal piano triennale del bilancio  previsto
dall'art. 21, comma 1, della legge n. 196 del 2009. 
    1.13. Viene, infine, denunciato il contrasto dell'art.  1,  comma
260, della legge n. 145/2018 con  gli  articoli  3,  36  e  38  della
Costituzione. 
    Viene osservato al riguardo che tale disposizione, disponendo una
deroga, per il triennio 2019-2021, alla disciplina  generale  di  cui
all'art. 34, comma 1, della legge n.  448  del  1998,  garantisce  la
perequazione integrale solo ai trattamenti pensionistici  di  importo
pari o inferiore a tre volte il trattamento minimo INPS  (euro  1.539
mensili), mentre per i trattamenti di importo superiore  prevede  una
perequazione  inversamente  proporzionale:  si  va  dal  97%  per   i
trattamenti di importo pari o inferiore a  quattro  volte  il  minimo
INPS, sino al solo 40% per i  trattamenti  pensionistici  di  importo
superiore a  nove  volte  il  trattamento  minimo  INPS  (euro  4.617
mensili), quale quello dell'odierno ricorrente. 
    Adduce ancora il ricorrente che la perequazione  dei  trattamenti
pensionistici costituisce diretta attuazione degli articoli 36  e  38
della Costituzione, in quanto volto a garantire il  mantenimento  nel
tempo del potere di acquisto delle pensioni e, con esso,  il  livello
di sufficienza delle stesse (in quanto retribuzione differita). 
    Rammenta inoltre che la Corte  costituzionale  ha  ricondotto  la
perequazione automatica dei trattamenti pensionistici alla necessita'
di «garantire nel tempo il rispetto del criterio  di  adeguaterza  di
cui all'art. 38, secondo comma, Cost.» e al contempo di «innervare il
principio di sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost.»
(Corte costituzionale, sentenza n.  70  del  2015),  a  fronte  della
«esigenza di una costante adeguazione del trattamento  di  quiescenza
alle retribuioni del servizio attivo» (Corte costituzionale, sentenze
n. 316 del 2010, n. 106 del 1996, n. 173 del 1986, n. 26 del 1980). 
    Spetta quindi al legislatore individuare  idonei  meccanismi  che
assicurino la perdurante adeguatezza  delle  pensioni  all'incremento
del costo della vita, e il meccanismo in esame puo'  essere  limitato
solo  alle  specifiche  condizioni   dettate   dalla   giurisprudenza
costituzionale. 
    In particolare, il blocco perequativo, proprio perche' e'  misura
eccezionale,   deve   essere   circoscritto   temporalmente    (Corte
costituzionale,  sentenza  n.  250  del   2017,   che   ha   ritenuto
costituzionalmente legittimo il blocco perequativo di cui all'art. 1,
comma 25 del decreto-legge n. 201 del  2011,  come  modificato  dalla
legge n. 65 del 2015, solo  in  quanto  circoscritto  «per  due  soli
anni», ...»). 
    In secondo  luogo,  la  disciplina  deve  essere  ragionevolmente
proporzionata rispetto al livello di trattamento pensionistico. 
    In ultima analisi, secondo la prospettazione di parte  ricorrente
devono sussistere eccezionali esigenze di bilancio o impegni di spesa
in ambito previdenziale  direttamente  collegati  ai  risparmi  cosi'
ottenuti (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 316 del 2010, che ha
ritenuto costituzionalmente legittimo il blocco perequativo in quanto
inserito  per  far  ragionevolmente  fronte  a  misure  previdenziali
previste dalla medesima legge). 
    Ritiene il ricorrente che  nessuna  di  tali  condizioni  risulta
rispettata dalla normativa in esame, la quale prolunga per  ulteriori
tre anni il blocco perequativo precedente (integralmente applicato al
ricorrente) e  in  considerazione  del  fatto  che  il  nuovo  blocco
perequativo non dispiega i propri effetti limitatamente agli anni  in
cui e' applicato, ma anche pro futuro, in ragione del fatto che «ogni
eventuale perdita del potere di acquisto del  trattamento,  anche  se
limitata  a  periodi  brevi,  e',  per  sua  natura,  definitiva.  Le
successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non  sul  valore
reale  originario,  bensi'  sull'ultimo  importo  nominale,  che  dal
mancato adeguamento e' gia' stato intaccato»  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 70 del 2015). Ne risulta che la  misura  in  discussione,
oltre a bloccare per complessivi cinque anni il  blocco  perequativo,
si ripercuotera' anche sui successivi,  con  conseguente  violazione,
anche sotto  il  profilo  in  esame,  dei  limiti  di  ragionevolezza
affermati dalla giurisprudenza costituzionale. 
    Anche sotto il  profilo  della  proporzionalita',  la  misura  in
esame, secondo parte ricorrente, si rivela  particolarmente  incisiva
sulla sua posizione, atteso che la pensione sara' rivalutata solo per
il 40%. 
    2. L'Avvocatura generale dello  Stato,  in  rappresentanza  della
Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dell'economia e
delle finanze, nella memoria di costituzione  del  22  novembre  2019
contesta la fondatezza delle censure di parte ricorrente e ne  invoca
il rigetto, con vittoria di spese e competenze di lite. 
    Adduce in particolare che: 
      le avversate disposizioni della legge n. 145/2018 rispettano il
parametro della temporaneita'  del  prelievo,  cosi'  come  delineato
dalla Corte costituzionale nelle sentenze  numeri 173/2016,  69/2014,
166/2012, atteso che la decurtazione del trattamento pensionistico si
applica solo  per  cinque  anni.  Nega  inoltre  che  vi  sia  alcuna
continuita'  con  le  diverse  misure  adottate  in  precedenza   dal
legislatore ne' omogeneita' di contenuti; 
      l'intervento in esame  appare  giustificato  dal  principio  di
solidarieta'  che  informa  la  Carta  Costituzionale  nonche'  dalla
necessita' di riequilibrio del  sistema  previdenziale  che  di  quel
principio costituisce espressione, poiche' la  riduzione  si  applica
esclusivamente alle pensioni di importo elevato  e  unicamente  sulla
parte eccedente una determinata soglia; 
      e' coerente e non irragionevole l'esclusione dal contributo  di
solidarieta' dei pensionati degli enti previdenziali  privatizzati  e
dei trattamenti pensionistici  dei  superstiti.  La  Difesa  erariale
contesta, inoltre, la  sussistenza  di  qualsivoglia  discriminazione
rispetto ai cittadini che fruiscono di redditi complessivi di  uguale
entita', assumendo che: 
      il prelievo  forzoso  assolve  ad  una  funzione  solidaristica
all'interno del sistema previdenziale; 
      la previsione normativa dell'accantonamento (in apposito fondo)
delle risorse risparmiate presso la gestione INPS supera  la  censura
di parte ricorrente; 
      la soglia minima di intervento e' piu'  elevata  rispetto  alle
precedenti misure restrittive  ex  legge  n.  147/2013  ed  e'  stato
introdotto un maggior numero di scaglioni reddituali; 
      la decurtazione patrimoniale non e'  definitiva  e  le  risorse
acquisite non sono destinate al finanziamento delle spese  pubbliche:
cio'  e'  avvalorato  dalla  durata  quinquennale  del   prelievo   e
dall'accantonamento dei risparmi presso l'INPS; 
      non e' conferente il  raffronto  di  detto  intervento  con  il
reddito di cittadinanza e con la  riforma  pensionistica  c.d.  quota
100, atteso che l'apporto recato dal prelievo in esame pari  a  circa
416 milioni  nel  quinquennio-non  e'  confrontabile  con  gli  oneri
connessi agli altri interventi legislativi; 
      secondo l'insegnamento della Corte  costituzionale,  la  tutela
del legittimo affidamento non impedisce  al  legislatore  di  emanare
norme che modificano la disciplina dei rapporti di  durata  in  senso
sfavorevole per i destinatari, purche' si tratti di disposizioni  che
non trasmodino  in  un  regolamento  irrazionale.  Assume  la  difesa
erariale che sono ammissibili  i  contributi  come  quello  in  esame
purche'  non  siano  arbitrari  e  non  eccessivamente  lesivi  delle
legittime aspettative del cittadino colpito; 
      la disposizione in parola dispone la contrazione del meccanismo
perequativo delle pensioni, attraverso la  previsione  di  un  numero
piu' elevato di aliquote in relazione ai diversi scaglioni di reddito
da un lato e di percentuali di perequazione piu' favorevoli  rispetto
alla disciplina vigente nel periodo 2014/2018; 
      infine,  l'eventuale  pronuncia  di  incostituzionalita'  della
disposizione in esame determinerebbe oneri per la  finanza  pubblica,
con la conseguente  necessita'  di  reperire  la  relativa  copertura
finanziaria. 
    3. Si e'  altresi'  costituito  in  giudizio  l'INPS,  che  nella
memoria  del  24  giugno  2019  richiama  la  sentenza  della   Corte
costituzionale n. 250/2017 in materia di perequazione automatica, ave
viene tra l'altro affermato che «Nel valutare la compatibilita' delle
misure di adeguamento  delle  pensioni  con  i  vincoli  posti  dalla
finanza pubblica, questa Corte ha sostenuto  che  manovre  correttive
attuate dal Parlamento ben possono escludere da tale  adeguamento  le
pensioni di importo piu' elevato», ma cosi'  facendo  il  legislatore
deve  soddisfare  «un  canone  di  non  irragionevolezza  che   trova
riscontro nei  maggiori  margini  di  resistenza  delle  pensioni  di
importo piu' alto rispetto agli effetti dell'inflazione.». 
    La Difesa dell'Istituto previdenziale reputa poi inammissibili ed
infondate le questioni di  costituzionalita'  sollevate  ex  adverso,
soprattutto  con   riferimento   all'art.   3   della   Costituzione,
evidenziando l'assenza nella fattispecie di un tertium comparationis. 
    In ordine all'art. 38  della  Costituzione,  la  predetta  Difesa
richiama  l'orientamento  consolidato  della   giurisprudenza   della
Consulta (ex multis, sentenza n. 30 del 2004) nel senso  di  ritenere
spettante alla discrezionalita' del legislatore,  sulla  base  di  un
ragionevole  bilanciamento  dei  valori  costituzionali,  dettare  la
disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, sulla base delle
risorse  finanziarie  attingibili,  e   fatta   salva   la   garanzia
irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona. 
    3.1. Sotto altro profilo si adduce l'infondatezza delle eccezioni
di parte ricorrente osservando  che  le  disposizioni  censurate  non
realizzano alcun  vulnus  mentre  non  consentono  ai  ricorrenti  di
ottenere un sistema previdenziale piu' vantaggioso. 
    4.  Con  ordinanza  n.  291/2019  questo  giudice  ha   rigettato
l'istanza cautelare di parte ricorrente per assenza del periculum  in
mora. 
    5. All'udienza di merito del 4 dicembre  2019,  il  difensore  di
parte  ricorrente  illustra  le   censure   contenute   nel   ricorso
introduttivo e nella  memoria  difensiva  del  26  novembre  2019  ed
insiste per l'accoglimento del ricorso, previa rimessione degli  atti
alla Corte costituzionale. 
    L'Avvocatura dello Stato chiede il rigetto del ricorso e  non  si
oppone   alla   proposizione   delle   questioni   di    legittimita'
costituzionale sollevate ex adverso. 
    All'esito  della  discussione  il  giudice  si  e'  riservata  la
decisione. 
 
                       Motivi della decisione 
 
    6. Come  emerge  dalla  narrativa  in  fatto,  parte  ricorrente,
lamentando che le norme denunciate (art. 1, commi da 261 a 268, legge
n. 145/2018)  hanno  inciso  sul  trattamento  pensionistico  in  suo
godimento con due concorrenti misure: 
      a) da un lato, con una misura «una  tantum»,  costituita  dalla
decurtazione, per cinque anni a decorrere dal 1°  gennaio  2019,  dei
trattamenti pensionistici di  importo  complessivamente  superiore  a
100.000 euro lordi su base annua [la decurtazione viene calcolata  in
base a cinque aliquote percentuali (15%-25%-30%-35%-40%) in relazione
ad altrettanti scaglioni di reddito, a partire da euro 100.000]; 
      b) dall'altro, con il parziale blocco della perequazione  delle
pensioni, che opera anch'esso con aliquote crescenti; 
    ha chiesto che sia  dichiarato  il  diritto  alla  corresponsione
dell'intero trattamento di pensione,  senza  le  decurtazioni  ed  il
blocco della rivalutazione introdotte  dall'art.  1,  commi  262-268,
legge 30 dicembre 2018, n. l45. A tali domande e' connessa quella  di
condanna dei convenuti alla restituzione di  quanto  trattenuto,  con
conseguente  rivalutazione  monetaria  e  interessi,  dalla  data  di
ciascuna trattenuta al soddisfo. 
    6 .1. Nell'atto introduttivo  del  giudizio  e'  stata,  inoltre,
prospettata l'illegittimita' costituzionale della norma de qua  sotto
i plurimi profili illustrati nella narrativa in fatto,  che  verranno
qui esaminati per quanto  ritenuti  rilevanti  e  non  manifestamente
infondati. 
    7. In punto di rilevanza delle dedotte questioni di  legittimita'
costituzionale, va preliminarmente osservato che le pretese  avanzate
dalla  parte  ricorrente,  qualora   decise   in   conformita'   alle
disposizioni sopra menzionate, non potrebbero trovare accoglimento. 
    Infatti, come puo' rilevarsi  dalla  strutturazione  del  ricorso
introduttivo, appare  evidente  che  la  decisione  su  di  esso  sia
indefettibilmente legata alla valutazione delle disposizioni  dettate
dall'art. 1, commi da 260 a 268, della legge n. 145/2018, atteso  che
il ricorrente appartiene al novero dei soggetti dalle stesse  incisi.
Invero, dagli atti di causa emerge che il  trattamento  pensionistico
di  cui  il  ricorrente  e'  titolare  -  in  quanto   di   ammontare
complessivamente superiore a nove volte il minimo INPS -  risulta  di
fatto inciso sia dal parziale blocco della  rivalutazione  automatica
per  il  triennio   2019/2021   (comma   260),   sia   dal   prelievo
sull'ammontare annuale lordo, previsto per il quinquennio 2019/2023. 
    Vanno di seguito distintamente trattate le anzidette misure  e  i
profili di illegittimita'  costituzionale  rilevanti  ai  fini  della
decisione della causa e non manifestamente infondati. 
    Il parziale blocco del  meccanismo  di  rivalutazione  automatica
delle pensioni. 
    Supposta violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione. 
    8. L'art. 1, comma 260,  legge  n.  145  del  2018  riconosce  la
perequazione  delle  pensioni  in   base   alle   seguenti   aliquote
decrescenti,  concernenti  i  trattamenti  pensionistici  di  importo
complessivo fino a nove volte il trattamento minimo INPS: 
      100% (stessa misura prevista dall'art. 1, comma 483 della legge
n. 147/2013 per il periodo 2014-2018) per i trattamenti pensionistici
il cui importo complessivo sia  pari  o  inferiore  a  tre  volte  il
trattamento minimo INPS; 
      97%  (in  luogo  del  precedente   95%)   per   i   trattamenti
pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a tre volte  e
pari o inferiore a quattro volte il predetto trattamento minimo; 
      77%  (in  luogo  del  precedente   75%)   per   i   trattamenti
pensionistici il cui importo  complessivo  sia  superiore  a  quattro
volte e pari o inferiore a cinque volte il trattamento minimo; 
      52%  (in  luogo  del  precedente   50%)   per   i   trattamenti
pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a cinque volte
e pari o inferiore a sei volte il trattamento minimo; 
      47% (in luogo del precedente 45% riferito a tutti i trattamenti
con importo complessivo fino a sei volte il minimo) per i trattamenti
pensionistici il cui importo complessivo sia superiore a sei volte  e
pari o inferiore a otto volte il trattamento minimo; 
      45% per i trattamenti pensionistici il cui importo  complessivo
sia superiore a otto volte  e  pari  o  inferiore  a  nove  volte  il
trattamento minimo; 
      40% per i trattamenti di importo complessivo superiore  a  nove
volte il trattamento minimo. 
    Come esposto in narrativa,  detta  disposizione  deroga,  per  il
triennio 2019-2021, alla disciplina  generale  di  cui  all'art.  34,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che garantisce la c.d.
perequazione solo ai trattamenti pensionistici «pari  o  inferiori  a
tre  volte  il  trattamento  minimo  INPS».  Per  tutti   gli   altri
trattamenti la perequazione e' prevista in misura inferiore,  dal  97
percento per i trattamenti pari o inferiori a quattro volte il minimo
INPS fino al solo  40  per  cento  per  i  trattamenti  pensionistici
superiori a nove volte il trattamento minimo INPS. 
    8.1. Assume parte ricorrente che la disciplina della perequazione
dei trattamenti pensionistici debba considerarsi  diretta  attuazione
degli articoli 36 e 38 della Costituzione poiche' mira a garantire il
mantenimento nel tempo del potere di acquisto delle pensioni  e,  nel
contempo, il livello di sufficienza della stessa,  considerata  dalla
stessa Corte costituzionale come retribuzione differita. 
    In effetti, nella sentenza n. 70 del 2015 il giudice delle  leggi
ha  affermato  che  «la  perequazione  automatica   dei   trattamenti
pensionistici e' uno strumento di natura tecnica, volto  a  garantire
nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all'art. 38,
secondo  comma  della  Costituzione.   Tale   strumento   si   presta
contestualmente  a  innervare  il  principio  di  sufficienza   della
retribuzione  di  cui  all'art.  36  della  Costituzione,   principio
applicato,  per  costante  giurisprudenza   di   questa   Corte,   ai
trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione  differita  (fra
le altre, sentenza n. 208 del 2014 e  sentenza  n.  116  del  2013)».
Peraltro, nella stessa pronuncia la Corte ha precisato che «fin dalla
sentenza n. 26  del  1980,  questa  Corte  ha  proposto  una  lettura
sistematica degli  articoli  36  e  38  della  Costituzione,  con  la
finalita' di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». 
    Secondo la Consulta, proporzionalita' e  adeguatezza  non  devono
sussistere soltanto al momento del collocamento a  riposo  «ma  vanno
costantemente  assicurate  anche  nel  prosieguo,  in  relazione   ai
mutamenti  del  potere  d'acquisto  della  moneta»,  senza  che  cio'
comporti un'automatica ed integrale coincidenza tra il livello  delle
pensioni e l'ultima retribuzione, poiche' e' riservata al legislatore
una sfera di discrezionalita' per l'attuazione, anche  graduale,  dei
termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n.  106  del
1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del  1979;  n.  176  del
1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell'art.  36
della Costituzione «consegue l'esigenza di una  costante  adeguazione
del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio  attivo»
(sentenza n. 501 del  1988;  fra  le  altre,  negli  stessi  termini,
sentenza n. 30 del 2004)». 
    8.2. Assume ancora parte ricorrente  che  l'art.  1,  comma  260,
della legge n.  145  del  2018,  nella  parte  in  cui  riconosce  la
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici in percentuali
predeterminate, viola il dettato sancito negli articoli 3,  36  e  38
della Costituzione, oltre a disattendere le numerose  sentenze  della
Corte costituzionale sul punto, ove si e' affermato che, in  ossequio
al  principio  di  ragionevolezza,  gli   interventi   che   incidono
negativamente sulle pensioni devono essere  temporanei  e  di  durata
limitata (nella sentenza  n.  173/1986  la  Corte  costituzionale  ha
ribadito che «la proporzionalita' e l'adeguatezza  devono  sussistere
non solo al momento del collocamento a riposo ma vanno  costantemente
assicurati anche nel prosieguo, in relazione al mutamento del  potere
di acquisto della moneta»). 
    Nel caso in esame, la pensione del ricorrente ha subito e subisce
continue riduzioni a seguito degli interventi legislativi succedutisi
(da ultimo decreto-legge n. 65/2015 e legge 147/2013) i  quali  hanno
provocato   e   provocano   l'effetto   trascinamento   con    enorme
penalizzazione negli anni successivi. 
    8.3. La suesposta prospettazione non puo' essere condivisa. 
    La Corte costituzionale, nella sentenza n. 70 del 2015, dopo aver
elencato le misure di  sospensione  dell'automatismo  del  meccanismo
perequativo delle pensioni, adottate nel  tempo  dal  legislatore  (a
partire dal decreto-legge 19 settembre  1992,  n.  384)  al  fine  di
bilanciare  le  attese  dei  pensionati  con  variabili  esigenze  di
contenimento della spesa, ha richiamato la sentenza n. 316  del  2010
nella quale la Corte, nel pronunciarsi sulla conformita' ai  principi
costituzionali della disciplina sull'azzeramento della  perequazione,
disposta dall'art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, ha posto
in evidenza  la  discrezionalita'  di  cui  gode  il  legislatore,  a
condizione  che  fosse  osservato  il  principio  costituzionale   di
proporzionalita' e adeguatezza delle  pensioni,  e  ha  reputato  non
illegittimo l'azzeramento, per il solo  anno  2008,  dei  trattamenti
pensionistici  di  importo  elevato  (superiore  ad  otto  volte   il
trattamento minimo INPS). Cosi' ha ritenuto non senza indirizzare  un
monito al legislatore affermando il principio per cui "la sospensione
a tempo indeterminato del  meccanismo  perequativo,  o  la  frequente
reiterazione  di  misure  intese  a  paralizzarlo,  entrerebbero   in
collisione  con  gli  invalicabili  principi  di   ragionevolezza   e
proporzionalita'. Si afferma, infatti, che "... le pensioni, sia pure
di  maggiore  consistenza,  potrebbero  non  essere  sufficientemente
difese in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta". 
    Nella citata sentenza n. 70 del 2015,  la  Corte  costituzionale,
chiamata a pronunciarsi sulla conformita' ai principi  costituzionali
del blocco della perequazione disposto con l'art. 24, comma  25,  del
decreto-legge   n.   201/2011,   ha    dichiarato    l'illegittimita'
costituzionale di detta disposizione, non tanto per avere sospeso  la
perequazione automatica, bensi' per avere totalmente bloccato per due
anni (2012-2013) la rivalutazione  delle  pensioni  superiori  a  tre
volte il trattamento minimo, riconoscendo il 100% della rivalutazione
in favore delle pensioni piu' basse, bocciando in tal modo il ricorso
a un sistema «secco» e non graduato di blocco della perequazione,  in
forza di contingenti  situazioni  finanziarie  non  specificate,  ne'
supportate da documentazione tecnica. 
    Nella medesima pronuncia viene quindi ribadita dal giudice  delle
leggi,  da  un  lato,  la  discrezionalita'   del   legislatore   nel
bilanciamento dei contrapposti  interessi  in  gioco,  dall'altro  il
limite intrinseco a tale potesta',  costituito  dalla  necessita'  di
osservare  la  ragionevolezza  e  la  proporzionalita'  nell'adottare
provvedimenti in grado di incidere sulla  protezione  delle  esigenze
minime della persona. 
    8.4. Nel caso di specie, la  disciplina  contestata  dalla  parte
ricorrente introduce un meccanismo perequativo modulato  in  base  ad
aliquote decrescenti (dal trattamento superiore a tre  volte  fino  a
quello superiore a nove volte il trattamento minimo INPS),  in  larga
parte piu' favorevoli per i pensionati, rispetto a  quelle  applicate
nel periodo 2014-2018. 
    Secondo  il   consolidato   orientamento   della   giurisprudenza
costituzionale, sopra richiamato, la modulazione della  perequazione,
riservata alla discrezionalita' del legislatore, e'  irragionevole  -
ponendosi quindi in contrasto con i principi di cui agli articoli 36,
primo comma,  e  38,  secondo  comma  della  Costituzione  -  laddove
intervenga, sotto forma  di  blocco  totale  dell'indicizzazione  per
lunghi periodi,  su  trattamenti  pensionistici  non  particolarmente
elevati, quali quelli superiori al triplo del minimo INPS. 
    8.5. Ritiene questo giudice che la disciplina  dettata  dall'art.
1,  comma  260,  legge  n.  145/2018,  nel  graduare  il   meccanismo
perequativo dei trattamenti pensionistici per fasce  di  importo,  si
ispiri  a  criteri  di  progressivita'  nel   rispetto   dei   valori
costituzionali di proporzionalita' ed adeguatezza dei trattamenti  di
quiescenza, ed e' pertanto esente da censure di incostituzionalita'. 
    Cio' tuttavia non esclude la presenza  di  zone  d'ombra  ove  si
consideri che il blocco parziale  del  meccanismo  perequativo  delle
pensioni piu'  elevate,  introdotto  dalla  norma  all'esame  per  il
triennio 2019-2021, finisce col saldare i propri effetti  con  quelli
introdotti  dal  decreto-legge  n.  65  del  2015,  che,  modificando
l'impianto di cui all'art. 1, comma 25, del decreto-legge n. 20l  del
2011 - dichiarato  illegittimo  dalla  Corte  costituzionale  con  la
citata sentenza n. 70 del 2015 - ha superato indenne lo scrutinio  di
costituzionalita' con la sentenza n. 250 del 2017. 
    L'eccezione  di  parte  ricorrente  e',  quindi,   manifestamente
infondata e va rigettata. 
Il taglio delle pensioni piu' elevate (art. 1, comma 261 e  seguenti,
legge n. 145 del 2018). Profili di incostituzionalita'. 
    9. Il comma 261  introduce,  per  il  quinquennio  2019-2013,  il
taglio dei «... trattamenti pensionistici diretti a carico del  Fondo
pensioni  lavoratori  dipendenti,   delle   gestioni   speciali   dei
lavoratori  autonomi,   delle   forme   sostitutive,   esclusive   ed
esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria e della Gestione
separata di cui all'art. 2, comma 26, della legge 8 agosto  1995,  n.
335, i cui importi complessivamente considerati superino 100.000 euro
lordi su base annua... [ ...]», secondo aliquote crescenti per  fasce
di valore superiori a detto  importo  (15  per  cento  per  la  parte
eccedente 100.000 euro fino a 130.000 euro, 25 per cento per la parte
eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, 30 per cento per la parte
eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, 35 per cento per la parte
eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e  40  per  cento  per  la
parte eccedente 500.000 euro). 
    9.1. Il petitum di parte ricorrente  involge  la  disapplicazione
dell'art. 1, commi dal 261 al 268, della legge 30 dicembre  2018,  n.
145 nonche' dei provvedimenti applicativi dell'INPS (circolari numeri
44 e 62 del 2019). 
    A tale riguardo, partendo dal principio, ripetutamente  affermato
dalla Corte costituzionale, secondo cui la pensione,  al  pari  della
retribuzione  in  costanza  di  rapporto  di  lavoro,   deve   essere
«proporzionata alla qualita'  e  quantita'  di  lavoro  prestato»  e,
comunque, «idonea ad assicurare al lavoratore  e  alla  sua  famiglia
un'esistenza libera e dignitosa,  nel  pieno  rispetto  dell'art.  36
Cost.» (sentenze n. 243 del 1993, n. 3 del 1966, n. 30 del  2004;  n.
70 del 2015, n. 208 del 2014, n. 116 del 2013, n. 30  del  2004),  la
normativa  all'esame  si  pone  in  contrasto  con  plurimi  principi
costituzionali, non rispettando i  limiti  e  i  parametri  enucleati
dalla Consulta in relazione ai numerosi  interventi  del  legislatore
sui trattamenti pensionistici in essere. 
    Vengono in rilievo i seguenti fondamentali principii, che possono
ritenersi oramai consolidati nella giurisprudenza costituzionale: 
      i)  principio  di  proporzionalita'  e   di   adeguatezza   del
trattamento di pensione; 
      ii) tutela dell'affidamento sulla  stabilita'  del  trattamento
pensionistico e suo  bilanciamento  con  le  concrete  disponibilita'
finanziarie e le esigenze di bilancio dello Stato; 
      iii) funzione solidaristica (e  non  tributaria)  del  prelievo
forzoso sul trattamento pensionistico; 
      iv) ragionevolezza e temporaneita' del prelievo. 
Violazione del principio di adeguatezza 
    9.2. L'art. 38, secondo comma della Costituzione, nel  proclamare
il diritto dei lavoratori a che siano preveduti  e  assicurati  mezzi
adeguati alle loro  esigenze  di  vita,  in  caso,  tra  l'altro,  di
invalidita'  e  vecchiaia,  fa  esplicito  riferimento,  secondo   la
migliore dottrina,  anche  alle  prestazioni  previdenziali,  la  cui
«adeguatezza»  costituisce,  nel   contempo,   valore   e   parametro
costituzionale per valutare gli interventi del legislatore sul  piano
dei trattamenti pensionistici. 
    Il concetto di adeguatezza delle prestazioni sociali viene  messo
a dura prova nei periodi di crisi economica - come quello attuale  -,
soprattutto nella vigenza  del  principio  di  parita'  di  bilancio,
consacrato nel novellato art. 81 della Costituzione,  che  impone  al
legislatore la necessita' di  operare  un  necessario  bilanciamento,
gia' di per se' di difficile  attuazione,  tra  l'interesse  generale
all'equilibrio finanziario dello Stato (soprattutto alla  luce  degli
obblighi sovranazionali di derivazione  comunitaria)  e  il  doveroso
rispetto dei principi costituzionali di solidarieta' ed eguaglianza. 
    In  un  siffatto  contesto,  la  stessa   Corte   costituzionale,
allorquando e' stata chiamata a  pronunciarsi  sulla  conformita'  ai
principi costituzionali  delle  norme  che  incidono  sfavorevolmente
sulla disciplina dei trattamenti pensionistici in essere,  ha  dovuto
operare una sorta di bilanciamento tra il principio di  «adeguatezza»
del trattamento pensionistico e l'interesse  generale  all'equilibrio
finanziario del Paese. In tale ottica si e' affermato  l'orientamento
volto a riconoscere alla prestazione pensionistica  il  carattere  di
prestazione alimentare, intesa come mezzo sufficiente  a  far  fronte
alle primarie necessita' degli assistiti, mediante la  corresponsione
di un minimum vitale (sentenza n. 22 del 1969). 
    Dopo di che la Corte (v. sentenze numeri 57 del 1973, 8 e 275 del
1976, 26 del  1980,  286  del  1987,  501  del  1988)  e'  giunta  ad
attribuire alla prestazione previdenziale la natura di  «retribuzione
differita», sotto la spinta  di  una  attenta  dottrina  che  afferma
l'esistenza  di  una  stretta  correlazione  tra   la   garanzia   di
proporzionalita' della retribuzione e l'adeguatezza  della  pensione,
sulla base di una interpretazione sistematica, logica  e  funzionale,
dell'art. 38, secondo comma, in combinato  disposto  con  l'art.  36,
primo comma della Costituzione. 
    Nella  sentenza  n.  26  del  1980,  la  Corte  afferma  che   il
«trattamento di quiescenza, al pari della retribuzione [ ... ],  deve
essere proporzionato alla  quantita'  ed  alla  qualita'  del  lavoro
prestato, e deve in ogni caso assicurare al  lavoratore  medesimo  ed
alla sua famiglia i mezzi adeguati alle loro  esigenze  di  vita  per
un'esistenza libera e dignitosa: proporzionalita' ed adeguatezza, che
non debbono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo,
ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo in relazione ai
mutamenti del potere d'acquisto della moneta». E'  pur  vero  che  il
predetto  principio  «non  comporta  [  ...  ]   automaticamente   la
necessaria e integrale coincidenza tra il livello  delle  pensioni  e
l'ultima retribuzione», poiche' sussiste pur  sempre  «una  sfera  di
discrezionalita' riservata al  legislatore  per  l'attuazione,  anche
graduale, dei principi  suddett»  (v.  Punto  4  del  Considerato  in
diritto). 
    Non ignora questo  giudice  che,  sotto  la  spinta  della  crisi
economica e della lievitazione del debito pubblico,  i  principii  di
proporzionalita' e di  adeguatezza  della  prestazione  pensionistica
hanno subito un notevole ridimensionamento nella giurisprudenza della
Consulta, che ha riconosciuto al legislatore un piu' ampio spazio  di
discrezionalita',  sia   pure   nel   rispetto   dei   limiti   della
ragionevolezza  e  della  proporzionalita'  delle  scelte.  Tuttavia,
costituisce un punto fermo  nella  giurisprudenza  costituzionale  il
principio secondo il quale, per quanto eventualmente giustificati  da
condizioni di crisi economicofinanziaria, le misure di riduzione  dei
trattamenti che incidono su diritti acquisiti o su rapporti giuridici
consolidati non possono assumere la caratteristica della  perpetuita'
e debbano avere carattere rigorosamente temporaneo. 
    Nello scrutinare le eccezioni di incostituzionalita' sollevate in
ordine al «contributo di solidarieta'» introdotto dall'art. 1,  comma
486, della legge n. 147 del 2013,  la  Corte  ha  affermato  che  per
superare lo scrutinio  «stretto»  di  costituzionalita'  il  prelievo
forzoso sulle pensioni deve, tra l'altro, «essere comunque utilizzato
come misura una tantum». 
    In  tale  occasione,  pur  dichiarando  infondata   la   relativa
questione, la Corte costituzionale ha tra l'altro  osservato  che  il
prelievo, «in ragione della sua temporaneita', non si palesa  di  per
se' insostenibile, pur innegabilmente comportando un sacrificio per i
titolari di siffatte pensioni» e che «l'intervento legislativo di cui
al denunciato comma 486,  nel  suo  porsi  come  misura  contingente,
straordinaria  e  temporalmente  circoscritta,  supera  lo  scrutinio
"stretto" di costituzionalita'». 
    Al contrario, l'intervento normativa all'esame si pone in  aperto
conflitto con il principio di  temporaneita'  del  prelievo  forzoso,
affermato in piu'  occasioni  dalla  Consulta  (ex  multis,  sentenze
numeri 173/2016, 69/2014, 166/2012). Esso, infatti, si presenta  come
«ripetitivo» di analoghe misure di prelievo forzoso  dei  trattamenti
pensionistici introdotte da precedenti interventi legislativi, di cui
quella disposta con la legge n. 147 del  2013  e'  solo  l'ultima  in
ordine di tempo. 
    Invero, la decurtazione del trattamento pensionistico, nelle piu'
svariate forme (contributo di solidarieta', blocco della perequazione
automatica per le  pensioni  di  elevato  importo,  ecc.),  e'  stata
ritenuta dalla Consulta  coerente  con  le  norme  costituzionali  in
quanto non si protragga nel tempo comprimendo in misura irragionevole
il diritto alla prestazione previdenziale. 
    9.3.  Nel  caso  di  specie,  l'ulteriore  prelievo  segue  quasi
immediatamente quelli precedenti, ponendosi con essi in  rapporto  di
sostanziale continuita'. Di fatto,  estendendo  una  cosi'  rilevante
riduzione del trattamento di pensione  ad  un  arco  temporale  cosi'
lungo (cinque anni, che diventano otto se si considerano gli  effetti
del precedente intervento di prelievo forzoso), detta misura  finisce
con il modificare radicalmente la causa del  rapporto  pensionistico,
ledendo in  misura  irragionevole  il  nesso  di  corrispettivita'  -
proporzionalita' con i contributi versati dal  ricorrente  nel  corso
della sua lunga attivita' lavorativa. 
    Se poi si considera l'eta'  avanzata  del  pensionato  (l'odierno
ricorrente ha 86 anni), l'efficacia della misura finisce,  di  fatto,
per diventare definitiva, riducendosi progressivamente con l'avanzare
degli anni la possibilita' di ottenere un (sia pur parziale)  ristoro
delle somme sottoposte al recupero forzoso. 
    Puo' quindi fondatamente affermarsi che, in  ragione  della  sola
apparente   temporaneita'   del   prelievo,   sono    da    ritenersi
abbondantemente superati i  limiti  di  ragionevolezza  affermati  in
precedenti occasioni dalla Corte costituzionale. 
Violazione  del  principio  di  affidamento  sulla   stabilita'   del
trattamento pensionistico. 
    10. La Corte costituzionale ha piu' volte affermato che la tutela
del legittimo affidamento costituisce un «principio connaturato  allo
Stato di diritto» (ex multis, sentenza n. 103 del 2013),  a  presidio
delle situazioni  soggettive  consolidatesi  sulla  base  di  atti  -
provenienti da organi amministrativi, legislativi o giudiziari -  che
abbiano  generato  nei  destinatari  un'aspettativa  qualificata   di
stabilita'. 
    E' pur vero che,  secondo  la  stessa  Consulta,  la  tutela  del
legittimo affidamento circa la sostanziale  stabilita'  del  rapporto
previdenziale non impedisce  al  legislatore  di  emanare  norme  che
modificano la disciplina dei rapporti di durata in senso  sfavorevole
per  i  destinatari,  purche'  si  tratti  di  disposizioni  che  non
trasmodino in un regolamento irrazionale. 
    Nella sentenza n. 349 del 1985, pur riconoscendo  al  legislatore
la potesta'  di  emanare  disposizioni  sfavorevoli  nell'ambito  dei
rapporti di durata - aventi ad oggetto diritti  soggettivi  perfetti,
come nel caso delle pensioni - , la Corte ha precisato  tuttavia  che
gli interventi legislativi «non possono trasmodare in un  regolamento
irrazionale e arbitrariamente incidere sulle  situazioni  sostanziali
poste  in  essere  da  leggi  precedenti,  frustrando   cosi'   anche
l'affidamento  del   cittadino   nella   sicurezza   giuridica,   che
costituisce elemento fondamentale e  indispensabile  dello  Stato  di
diritto» (v.  punto  5  del  «Considerato  in  diritto»).  La  stessa
tipologia dei contributi di solidarieta e' ammessa a  condizione  che
gli stessi non siano arbitrari  e  non  eccessivamente  lesivi  delle
legittime aspettative del cittadino colpito. 
    In altra pronuncia la Consulta ha ribadito che, se e' con sentito
al legislatore di modificare  (ovviamente  in  peius)  i  trattamenti
pensionistici in essere, tuttavia  «non  puo'  dirsi  consentita  una
modificazione legislativa che, intervenendo o in  una  fase  avanzata
del rapporto di lavoro oppure quando gia' sia subentrato lo stato  di
quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza,  in  misura
notevole ed in maniera definitiva, un  trattamento  pensionistico  in
precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile  vanificazione
delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
successivo  alla  cessazione  della  propria  attivita'   lavorativa»
(sentenza n. 822 del 1988). 
    In altra recentissima pronuncia (sentenza n. 108  del  2019),  la
Consulta   ha   ribadito   che   l'affidamento    «trova    copertura
costituzionale nell'art. 3 della Costituzione, e' ritenuto "principio
connaturato allo Stato di diritto" (sentenze n. 73 del 2017, n. 170 e
n. 160 del 2013, n. 78 del  2012  e  n.  209  del  2010),  ed  e'  da
considerarsi ricaduta e declinazione "soggettiva" dell'indispensabile
carattere  di   coerenza   di   un   ordinamento   giuridico,   quale
manifestazione del valore della certezza del diritto». 
    10.1. Se questi sono  i  limiti  -  come  enucleati  dalla  Corte
costituzionale  -  ai  quali  il  legislatore  deve  attenersi  nella
disciplina dei rapporti  di  durata  (tra  i  quali  sono  ovviamente
compresi i  rapporti  previdenziali),  la  misura  all'esame  non  li
rispetta affatto. 
    E' indubbio, infatti, che l'odierno ricorrente  sia  titolare  di
una  posizione  giuridica   consolidata   vantando   un   affidamento
qualificato  sulla  sostanziale  e  non  provvisoria  stabilita'  del
trattamento pensionistico.  La  stessa  Corte  costituzionale,  nella
sentenza  n.  89  del  2018,  ha  ammonito   (il   legislatore)   che
l'affidamento meritevole di tutela postula  «il  consolidamento,  nel
tempo, della  situazione  normativa  che  ha  generato  la  posizione
giuridica incisa dal nuovo assetto regolatorio, sia perche' protratta
per un periodo sufficientemente lungo, sia per  essere  sorta  in  un
contesto giuridico sostanziale atto a far  sorgere  nel  destinatario
una ragionevole fiducia nel suo  mantenimento  (sentenza  n.  56  del
2015)». 
Violazione del principio di ragionevolezza e di eguaglianza. 
    11. I soggetti destinatari della  misura  prevista  dall'art.  1,
comma 261  e  seguenti,  legge  n.  145/2018  sono  i  percettori  di
trattamenti  pensionistici  diretti  a  carico  del  Fondo   pensioni
lavoratori  dipendenti,  delle  gestioni  speciali   dei   lavoratori
autonomi,  delle  forme   sostitutive,   esclusive   ed   esonerative
dell'assicurazione generale obbligatoria e della gestione separata ex
art. 2, comma 26, legge n. 335 del 1995. 
    Dalla  piana  lettura  della   norma   si   appalesano   plurime,
irragionevoli discriminazioni. 
    Sotto un primo profilo, e' evidente che la  misura  non  colpisce
indiscriminatamente tutti i soggetti percettori del medesimo  livello
di reddito, ma unicamente i pensionati in quanto tali. 
    L'irragionevolezza della disciplina discende  dal  fatto  che,  a
parita' di reddito, si va a colpire la categoria  dei  pensionati,  i
quali, a differenza dei soggetti ancora in attivita' lavorativa,  non
hanno modo di compensare la decurtazione attraverso qualche forma  di
interlocuzione con il datore di lavoro (che non esiste piu' se non  a
fini meramente fiscali) ovvero con  il  ricorso  ad  altri  eventuali
impieghi: si pensi al divieto per le PP.AA. di  attribuire  incarichi
di studio o di  consulenza  a  soggetti  gia'  lavoratori  privati  o
pubblici collocati in quiescenza nonche'  di  conferire  ai  medesimi
soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche  in  organi  di
Governo delle medesime amministrazioni,  come  espressamente  dispone
l'art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito dalla
legge n. 135 del 2012. 
    Cio'  risulta  ancor  piu'  evidente  ove  si  consideri  che  il
trattamento  pensionistico  e'   pacificamente   considerato,   dalla
giurisprudenza costituzionale, una forma di  retribuzione  differita.
La Consulta ha infatti affermato in piu' occasioni che, al pari della
retribuzione  in  costanza   di   rapporto   di   lavoro,   l'entrata
pensionistica deve essere «proporzionata alla qualita' e quantita' di
lavoro prestato» e, comunque, «idonea ad assicurare al  lavoratore  e
alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, nel pieno rispetto
dell'art. 36 Cost.» (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 30 del
2004). 
    Risulta quindi violato il principio  di  parita'  di  trattamento
sancito dall'art. 3 della Costituzione, nonche', nel contempo, quello
di capacita' contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione,  non
apparendo in alcun modo ragionevole assumere il reddito  da  pensione
quale indice di capacita' contributiva maggiore di  quello,  di  pari
importo, derivante  da  altre  fonti  di  reddito  (lavoro,  impresa,
redditi di capitale ed altro). 
    A tale riguardo la stessa Corte costituzionale ha  osservato  che
«i redditi derivanti dai trattamenti  pensionistici  non  hanno,  per
questa loro origine, una natura diversa e  minoris  generis  rispetto
agli altri redditi  presi  a  riferimento,  ai  fini  dell'osservanza
dell'art. 53 Cost., il quale non consente  trattamenti  in  peius  di
determinate categorie di redditi da  lavoro»  (sentenza  n.  116  del
2013). 
    L'irragionevolezza della disciplina all'esame, alla  stregua  dei
principii sanciti dagli  articoli  3  e  53  della  Costituzione,  e'
connaturata alla  scelta  del  legislatore  di  imporre  un  prelievo
forzoso ad  una  ben  delimitata  cerchia  di  soggetti  (quella  dei
pensionati, e neppure a tutti, come si  vedra'),  e  non  a  tutti  i
contribuenti dotati della stessa capacita' contributiva  in  modo  da
parli tutti sul medesimo piano. E' stata cioe' onerata di  concorrere
alla spesa pubblica (o a quella previdenziale nel suo  complesso)  la
pensione gestita dall'INPS, anziche'  scegliere  di  agire,  con  gli
strumenti  della  fiscalita'   generale,   sull'intera   platea   dei
contribuenti dotati della  stessa  capacita'  contributiva.  In  cio'
viene, quindi, a configurarsi un vero e proprio intento  punitivo,  e
percio' stesso irragionevole e  discriminatorio,  nei  confronti  dei
pensionati INPS, gli unici ritenuti,  per  ignoti  e  imprescrutabili
motivi, meritevoli di subire uno  specifico  e  gravoso  pregiudizio.
Invero,   per   sottrarsi   ad   ogni    ragionevole    censura    di
incostituzionalita', il legislatore  avrebbe  dovuto  far  concorrere
alla spesa pubblica in  generale,  o  a  quella  (particolare)  della
gestione  previdenziale  nel  suo  complesso,  tutti  i  contribuenti
percettori di redditi superiori a una certa soglia, e non soltanto  i
componenti della sub categoria di pensionati cui appartiene l'odierno
ricorrente. In tal caso, non soltanto  il  sacrificio  sarebbe  stato
(equamente)  distribuito  su  una  platea   assai   piu'   vasta   di
destinatari, ma si sarebbe potuto ottenere un  incremento  pecuniario
ben maggiore del ridotto e prevedebile risparmio di  spesa  derivante
dal prelievo forzoso imposto su una ridotta  categoria  (rectius  sub
categoria) di contribuenti. 
    Peraltro, trattandosi in grandissima parte  di  persone  in  eta'
avanzata,  molto  piu'  di  altri   soggetti   i   pensionati   hanno
notoriamente bisogno di ingenti risorse finanziarie  per  far  fronte
alle accresciute esigenze di assistenza e  cura.  Che  si  tratti  di
persone   meritevoli   di    particolare    protezione    da    parte
dell'ordinamento giuridico,  lo  ha  autorevolmente  riconosciuto  la
stessa Corte costituzionale la quale ha  affermato  che  «il  diritto
alla  pensione  costituisce  una  situazione  soggettiva  di   natura
patrimoniale, imprescrittibile, assistita  da  speciali  garanzie  di
certezza  e  stabilita'  e  da  una  particolare  tutela   da   parte
dell'ordinamento (sentenza  n.  116/2013),  anche  in  ragione  della
condizione  oggettiva  di  debolezza  in  cui  il  titolare  viene  a
trovarsi, sia nell'ambito del rapporto obbligatorio che  si  instaura
con l'amministrazione sia nella particolare fase della  vita  in  cui
l'uscita dall'attivita' lavorativa e l'eta' comportano  un  difficile
adattamento al nuovo stato» (sentenza n. 208 del 2014). 
    11.1. Sotto altro  rilevante  profilo,  la  norma  determina  una
irragionevole discriminazione all'interno della  macro-categoria  dei
pensionati: sono, infatti, esclusi dalla  decurtazione  in  parola  i
titolari delle pensioni erogate dalle gestioni previdenziali  diverse
dall'INPS, benche' di importo pari o superiore. Anche in tal caso non
sono  evidenti  ne'  comprensibili  le  ragioni   di   una   siffatta
discriminazione. 
    11.2. Non solo. La misura viene a determinare  un  ingiustificato
squilibrio tra le pensioni di anzianita' e  quelle  di  vecchiaia,  a
tutto vantaggio delle prime rispetto alle seconde. Infatti, a parita'
di  posizione  professionale,  chi  ha  optato  per  la  pensione  di
anzianita' ha versato  minori  contributi  a  fronte  di  un  periodo
lavorativo  inferiore  a  quello  necessario  per  la   pensione   di
vecchiaia, e godra' infine di un trattamento  previdenziale  che,  se
non supera la soglia di 100 mila  euro  l'anno,  non  verra'  colpito
affatto dalla decurtazione de qua. Inoltre, anche  nel  caso  in  cui
supera detta soglia, la pensione di anzianita'  subisce  la  medesima
decurtazione della pensione  di  vecchiaia  per  la  cui  maturazione
occorre lavorare piu' a lungo e versare  contributi  maggiori.  Tutto
cio' in dispregio del principio di parita' di trattamento  a  parita'
di  contributi  versati  e  di  proporzionalita'   tra   pensione   e
contributi. 
    11.3. Ulteriore profilo di irragionevolezza va individuato  nella
esclusione  dalla  misura  de  qua  dei   trattamenti   pensionistici
riconosciuti ai superstiti (pensioni di reversibilita'), sebbene - in
ipotesi - di ammontare superiore alla soglia minima di 100mila  euro.
Emerge,  in  tale  regime  di  deroga,  un  vero  e  proprio  intento
«punitivo» del legislatore nei confronti  di  chi  ha  maturato  -  a
fronte del versamento dei  previsti  contributi  -  il  diritto  alla
pensione INPS, come se si trattasse di un ingiusto privilegio  e  non
gia' di un meritato riconoscimento economico  (che  la  stessa  Corte
costituzionale ha qualificato «retribuzione differita») a conclusione
di un lungo percorso lavorativo. Peraltro, se  cosi'  fosse,  non  si
ravvede la ratio dell'esclusione dalla decurtazione  del  trattamento
di  reversibilita'  in  quanto  tale,  che  pure  trae  origine   dal
trattamento maturato in capo al pensionato. 
    11.4. Ulteriore profilo di irragionevolezza della  disciplina  va
individuato nell'esclusione dalla decurtazione de qua delle  pensioni
interamente liquidate con  il  sistema  contributivo.  Il  comma  263
dell'art. 1 dispone infatti che «La riduzione di cui al comma 261 non
si applica  comunque  alle  pensioni  interamente  liquidate  con  il
sistema contributivo». 
    La  ratio  di  detta  previsione  sembra   muovere   dall'erroneo
presupposto  secondo  cui  le  pensioni  liquidate  con  il   sistema
retributivo (o misto),  a  differenza  di  quelle  liquidate  con  il
sistema contributivo, beneficiano di restituzioni  non  proporzionate
ai contributi versati. Ma in tal modo si esclude assiomaticamente che
il trattamento di pensione  liquidato  con  il  sistema  contributivo
possa raggiungere la soglia di 100 mila euro l'anno: se cio'  avviene
(com'e' ben possibile, ad esempio,  per  le  pensioni  dei  dirigenti
delle grandi  aziende),  non  vi  ravvede  alcuna  ragione  idonea  a
giustificare un siffatto regime di deroga, se e' vero  che  qualsiasi
contributo versato dal lavoratore - quale che  sia  la  modalita'  di
calcolo della pensione - assolve alla funzione  solidaristica  tipica
della gestione previdenziale. 
    Peraltro, e' del tutto erroneo ritenere - come sembra abbia fatto
il legislatore - che il sistema  retributivo  (o  quello  misto)  sia
necessariamente  meno  solidaristico  di  quello  contributivo.   Se,
infatti, nel sistema retributivo l'anzianita' contributiva  utile  ai
fini  del  calcolo  della  pensione  si  arresta  al  compimento  del
quarantesimo anno di attivita', gli ulteriori contributi versati  dal
lavoratore  finiscono  per   avvantaggiare   unicamente   gli   altri
assicurati - in ragione della richiamata natura  solidaristica  della
contribuzione - non assumendo alcuna rilevanza ai  fini  del  computo
della retribuzione pensionabile. E' il caso  dell'odierno  ricorrente
il quale, avendo versato contributi per oltre cinquantuno  anni,  non
ha potuto avvalersi, ai fini del proprio  trattamento  pensionistico,
dei contributi versati oltre il  40°  anno,  essendo  essi  andati  a
vantaggio degli altri  iscritti  alla  gestione  previdenziale  e  al
sistema nel suo complesso. 
    L'irragionevolezza della disciplina e' ancor  piu'  evidente  nei
riguardi delle pensioni liquidate con sistema misto (o «pro  quota»),
essendo  assoggettate   alla   decurtazione   anche   i   trattamenti
pensionistici (parzialmente) alimentati dalle  contribuzioni  versate
nel  corso  dell'intera  attivita'  lavorativa.  Tanto  piu'  se   si
considera che il superamento della  soglia  dei  100.000  euro  lordi
annui (o degli scaglioni superiori ai  fini  dell'applicazione  delle
percentuali successive) ben potrebbe essere determinato proprio dalla
quota contributiva della pensione. 
    11.5.  Si  tratta,  in  tutti  questi  casi,  di  percettori   di
trattamento  pensionistico  e  l'irragionevole  discriminazione   tra
soggetti appartenenti alla medesima categoria (a parita'  di  livello
di trattamento) viola in modo evidente il principio di eguaglianza. 
    11.6. Viene, altresi', ad essere reciso, con la  decurtazione  in
parola, il nesso di correlazione tra retribuzione e pensione (data la
natura di quest'ultima di «retribuzione differita») nonche' il  nesso
di corrispettivita' fra  trattamento  pensionistico  e  contribuzione
versata,  anche   sotto   il   concorrente   profilo   della   tutela
dell'affidamento del pensionato.  Si  appalesa,  infatti,  del  tutto
irragionevole, oltre che discriminatoria, una disciplina che  prevede
un criterio di decurtazione della pensione che  prescinde  del  tutto
dalla durata del rapporto lavorativo nonche' - e cio' e' ancora  piu'
ingiustificato - dall'entita' dei contributi versati. 
    In conclusione, risultano lesi i principi di  ragionevolezza,  di
affidamento,  di  uguaglianza  e  di  adeguatezza   del   trattamento
previdenziale nonche' quello di  capacita'  contributiva,  rivenienti
dal combinato disposto di cui agli articoli 2, 3, 36, 38 e  53  della
Costituzione,  atteso  che  il  prelievo  di  cui  ai  commi  261-268
dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018: 
      incide  su  trattamenti  previdenziali  consolidati,   operando
irragionevoli discriminazioni: 
        tra pensionati e non, a parita' di livello di reddito; 
        tra pensioni gestite dall'INPS e pensioni di  altre  gestioni
previdenziali; 
        tra pensioni dirette e pensioni di reversibilita', a  parita'
di trattamento economico; 
        tra pensioni determinate con il sistema retributivo  o  misto
(cd. pro quota) e pensioni determinate con metodo contributivo; 
        viola il requisito della  «temporaneita'»  della  misura,  in
considerazione della durata quinquennale del prelievo forzoso e della
saldatura  dei  suoi  effetti  con  quelli  prodotti  dagli  analoghi
provvedimenti che lo hanno di poco preceduto, senza il  rispetto  dei
criteri  di  proporzionalita'  e  ragionevolezza  ex  art.  3   della
Costituzione (Corte costituzionale, sentenza n. 173/2016); 
        incide in misura consistente  sui  trattamenti  pensionistici
piu' elevati, in violazione del nesso di tendenziale correlazione tra
retribuzione e pensione nonche' tra contributi versati e  trattamento
di quiescenza; 
        imponendo  un  sacrificio  su  una  ristretta   cerchia   dei
soggetti, si presenta come misura sostitutiva  di  un  intervento  di
fiscalita' generale nei confronti di tutti i cittadini, in violazione
dei parametri di legittimita' dettati dagli articoli 3, 23 e 53 della
Costituzione (cfr. Corte dei conti,  sezione  giurisdizionale  Lazio,
ordinanza n. 308/2019). 
    In  ultima  analisi,  la   disciplina   all'esame   collide   con
l'insegnamento della  Corte  costituzionale  secondo  il  quale  «dal
combinato  operare  dei  principi,  appunto,  di  ragionevolezza,  di
affidamento  e  della  tutela  previdenziale  (articoli   3   e   38,
Costituzione) il rispetto dei canoni costituzionali e' oggetto di uno
scrutinio "stretto" di costituzionalita',  che  impone  un  grado  di
ragionevolezza complessiva ben piu' elevato di quello che, di  norma,
e' affidato alla mancanza di  arbitrarieta'»  (sentenza  n.  173  del
2016). 
    In conclusione, non potendo essere definito nel  merito,  se  non
previa  risoluzione  delle  prospettate  questioni  di   legittimita'
costituzionale,  il  presente  giudizio  deve  essere  sospeso,   con
rimessione degli atti alla Corte costituzionale.